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Special guest

Tanto tuonò che piovve: con la canonica intervista al Corriere della Sera, che si conferma il bollettino ufficiale delle nostre partenze, Paola Binetti annuncia oggi il suo addio al Pd per l’Udc. Sull’addio al Pd, i bookmakers avevano chiuso le scommesse da tempo; sull’entrata nell’Udc, mi dispiace non essermi giocato qualche euro nei giorni scorsi, perché c’era ancora chi credeva che andasse con Rutelli. Io no, non ci ho mai creduto, perché per un profilo come il suo sarebbe stata una fatica inutile: andare nell’Api – che per necessità e per virtù nasce  pluralista – significava rimettersi a combattere per affermare l’identità cattolica pure lì dentro. Con la Lanzillotta anziché con la Pollastrini, ma sempre battaglia era. Nell’Udc, invece, Paola Binetti si può mettere finalmente in pantofole: più o meno lo stesso ragionamento che facevo tempo fa, parlando di Dorina Bianchi. Ecco perché, stavolta, non leggerete il mio solito pianto greco sull’irrilevanza del filone culturale cristiano nella costruzione politica del Pd: perché l’addio della Binetti, in realtà, l’avevo metabolizzato già da tempo, prima ancora che avvenisse. Da un lato, vedevo la sua sofferenza; dall’altro, constatavo l’insofferenza degli altri: non c’era scampo, davvero, e lo sapevamo tutti. Anche lei, che però – e questo gliel’ho rimproverato anche personalmente – ha insistito un po’ troppo sul vado-non-vado, beneficiando magari per qualche tempo di una rendita di posizione personale sui giornali ma non aiutando certo il Pd e neppure quelli di noi che, diversamente da lei, avevano deciso di continuare a combattere dal di dentro. A Paola Binetti devo molto, perché la mia candidatura è passata anche attraverso lei: fu proprio lei – che avevo avuto più volte ospite in Rai – a parlarne la prima volta con Francesco Rutelli, il quale a sua volta mi propose a Veltroni, che accettò. La sua partenza, dunque, mi pone più di un problema personale, perché istintivamente mi viene da pensare che uno di noi (forse lei, forse io)  stia oggi dalla parte sbagliata: o io sbaglio a restare, perché il destino della componente cattolica nel Pd è ormai segnato, oppure lei sbaglia ad andare via, perché rinuncia ad una sfida cruciale e si mette, appunto, le pantofole. Può darsi pure, però, che abbiamo ragione entrambi: su alcune questioni – dall’omofobia ai Dico, per dirne due – abbiamo infatti sensibilità diverse e non per questo uno dei due si sente più cristiano dell’altro. Nell’intervista di addio, Paola Binetti esagera su alcune cose (la locomotiva del Pd lasciata a Pannella) ma dice la verità su altre, perché è vero che oggi nel partito c’è la tendenza a considerare la cultura cattolica alla pari di quella radicale, nonostante i radicali non abbiano contribuito alla formazione del Pd e soprattutto non intendano farne parte, preferendo il ruolo di special guest. Il giorno in cui mi accorgessi che la situazione è irrimediabilmente ribaltata, con la cultura radical-libertaria a fare da collante e la presenza cristiana ridotta al ruolo di special guest, preparatemi un manifesto come questo qui sopra.

Fuori due

La porta aperta mesi fa da Pierluigi Mantini, che uscì dal Pd in direzione centro, non è stata ancora richiusa: poco dopo toccò a Lorenzo Ria, poi alla truppa rutelliana (Mosella, Calgaro, Vernetti, Lanzillotta) con veltroniani spiazzati (Calearo), e probabilmente ne sto dimenticando qualcuno perché ormai cominciano ad essere parecchi. Oggi è toccato a Renzo Lusetti ed Enzo Carra, che in conferenza stampa hanno annunciato l’ingresso nell’Udc, motivandolo con una serie di argomentazioni che non sottovaluterei. Quella principale è la solita: il Pd non è più il Partito democratico, del progetto originario è rimasto solo il nome. Probabilmente non ve lo ricorderete, ma è lo stesso concetto espresso all’epoca da Lorenzo Ria, che – quando il congresso era ancora lontano – parlò di una “mutazione transgenica” del partito. La reazione al suo addio fu minimalista: si disse che era un problema locale, perché aveva litigato con il Pd pugliese in seguito a delle primarie non fatte, e che la storia della mutazione transgenica era una scusa. Così come minimalista fu la reazione all’addio di Mantini, derubricato all’ennesima virata di “un voltagabbana, abituato a passare da uno schieramento all’altro”. Di Rutelli e dei rutelliani si commentò che erano solo persone in cerca di potere e visibilità, visto che all’interno del Pd erano ormai ridotti al lumicino: avevano capito che con Bersani conveniva aprire partita Iva e fare i collaboratori esterni anziché accontentarsi di un lavoro da operaio sottopagato. Di Calearo si spiegò che non era mai stato di sinistra, e che dunque aveva sbagliato Veltroni a candidarlo nel Pd. E potremmo trovare ottime scuse, in effetti, anche per l’addio di Lusetti e Carra: del primo, possiamo facilmente ipotizzare un desiderio di vendetta personale, dopo essere stato lasciato solo dal partito durante tutta l’indagine di Napoli sull’affare Romeo, mentre Italo Bocchino – coinvolto come lui nello scandalo – veniva difeso a spada tratta dal Pdl; di entrambi, poi, possiamo ricordare l’elevato numero di legislature, che certamente li avrebbe tagliati fuori dalle prossime liste se fossero rimasti nel Pd, mentre con l’Udc si riaprono i giochi e probabilmente ci sarà spazio per un altro giro di giostra. Su ognuno, insomma, possiamo trovare le giustificazioni che vogliamo, e non è detto che siano analisi campate in aria: probabilmente c’è un pezzo di verità in ogni cosa, come del resto c’è verità nella loro analisi della situazione politica. Né Carra né Lusetti – e lo hanno ribadito nella conferenza stampa di oggi – avevano mai cambiato partito in vita loro: il percorso comune era quello dei cattolici democratici, attraverso le sue evoluzioni storiche (Dc, Ppi, Margherita, Pd). Se anche ci fosse del calcolo nella loro decisione attuale – e certamente credo che ci sia, perché parliamo comunque di due politici navigati – non si può accusarli di mastellismo, rivendicando a noi che restiamo il ruolo di duri e puri. Una scelta del genere deve interrogarci tutti, soprattutto perché è l’ennesima: se scrolliamo le spalle e ci illudiamo di aver tolto di mezzo i clericali, per tenerci solo i cattolici veri, compiamo un peccato enorme di presunzione. Mentre il Partito democratico attuale, a mio modo di vedere, ha bisogno esattamente del contrario: di un sanissimo bagno di umiltà che, se fossi il medico del Pd, prescriverei innanzitutto a molti nostri dirigenti refrattari all’acqua.

Magna Carta

Due secoli e mezzo fa, nel 1765, la rivoluzione americana iniziò con uno sciopero fiscale: i coloni americani si rifiutarono di pagare le tasse al governo inglese, perché a loro era negato il diritto di voto. “Se non posso incidere sugli organi che determinano le tasse – spiegavano – allora non le pago neppure”: d’altra parte, il principio del no taxation without representation era un caposaldo della legislazione britannica fin dai tempi di Robin Hood, quando Giovanni Senzaterra fu costretto dalla rivolta dei baroni a promulgare la Magna Carta. Ho cercato di ricordare queste cose al leghista Matteo Salvini, stamattina, durante una trasmissione televisiva (Cominciamo bene, Raitre) in cui ero stato invitato per parlare della proposta di legge sul voto agli immigrati,che abbiamo appena presentato alla Camera. Primo firmatario Walter Veltroni (Pd), seconda firmataria Flavia Perina (Pdl), poi Leoluca Orlando (Idv), Roberto Rao (Udc) e diversi altri, fra cui la coppia di fatto Sarubbi-Granata ed il costituzionalista Salvatore Vassallo (Pd), che l’ha scritta: un altro tentativo, insomma, di ragionare insieme, al di là delle appartenenze politiche. Le reazioni le avrete già lette sui giornali, dunque non mi ci soffermo più di tanto: ne cito solo una, quella di Debora Bergamini (Pdl), che si dice amareggiata per il fatto (a suo parere grave) che alcuni esponenti del suo partito si trovino d’accordo con altri colleghi del Pd. Io mi amareggio, invece, per il motivo opposto: perché la politica, cioè, si sta trasformando in una guerra permanente, in cui qualsiasi proposta diventa giusta o sbagliata non in base al contenuto, ma a seconda di chi l’ha fatta. È il prezzo che sta pagando la proposta di legge sulla cittadinanza, e questa sul voto agli immigrati ha ricevuto lo stesso trattamento. Eppure, è un provvedimento di assoluto buon senso, che – richiamandosi all’antico principio di cui sopra, secondo il quale chi paga le tasse qui è giusto che abbia voce in capitolo sugli amministratori – recepisce soltanto quanto ci viene richiesto dalla Convenzione di Strasburgo, firmata il 5 febbraio del 1992 e non ancora attuata pienamente. Al capitolo C della Convenzione, intitolato “Diritto di voto alle elezioni delle autorità locali”, si trova l’articolo 6, che recita così:

Articolo 6
1. Ciascuna Parte si impegna, conforme alle disposizioni dell’articolo 9, paragrafo 1, a concedere ad ogni residente straniero il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni delle autorità locali, a condizione che soddisfino alle stesse condizioni prescritte per i cittadini ed inoltre che siano stati residenti legalmente e in modo abituale nello Stato in questione nei cinque anni precedenti le elezioni.
2. Tuttavia, uno Stato contraente può dichiarare all’atto del deposito del suo strumento di ratifica, l’accettazione, l’approvazione o l’adesione che intende limitare nell’applicazione del paragrafo 1 al solo diritto di voto.

In sostanza, gli Stati firmatari (tra cui l’Italia) si sono impegnati, 17 anni fa, a concedere il diritto di voto attivo (su quello passivo c’è discrezionalità) a tutti gli stranieri residenti da 5 anni, indipendentemente dalla loro nazionalità: attualmente, invece, da noi possono votare alle amministrative solo i cittadini dell’Ue, ma non – ad esempio – gli americani ed i filippini, né gli argentini e gli eritrei. Il motivo, spiegato nella stessa Convenzione, è il fatto che gli stranieri residenti sul territorio nazionale “sono ormai una caratteristica permanente delle società europee” e “sono sottoposti generalmente agli stessi doveri dei cittadini a livello locale”. In un Paese normale, dunque, non ci sarebbe da scannarsi: basterebbe prenderne atto, adeguare in fretta le leggi e tanti saluti. Ma il nostro, non dimentichiamolo, è il Paese in cui leggi Magna Carta e ti viene in mente la fondazione di Quagliariello, mica Robin Hood.

Il garante del sogno

Riprenderò a partecipare alla vita del Pd, ha detto Walter Veltroni al Corriere della sera, che ormai è diventato la nostra Gazzetta ufficiale. Lasci il Pd, come Francesco Rutelli e Linda Lanzillotta? Lo dici al Corriere. Ci resti, come Veltroni? Lo dici al Corriere. Mai nessuno che ci desse una notizia durante un congresso, che ne so, o magari una riunione di gruppo parlamentare, o anche solo in un’assemblea di circolo, quand’anche fosse il circolo della periferia più remota dell’impero: dal mio ingresso in politica in poi (ormai siamo ad un anno e mezzo, quasi due), ho sempre appreso le cose attraverso i giornali. In ogni caso, al di là del metodo utilizzato per l’annuncio, il rinnovato impegno di Veltroni mi sembra una buona notizia: di romanzieri l’Italia ne ha già parecchi, di leader politici credibili un po’ meno. Ed il Partito democratico, in particolare, ha bisogno di qualcuno che garantisca i delusi, i neo-lontani, quelli che avevano creduto ad un progetto e che ora si trovano dentro a qualcos’altro. Quelli che non pensavano di finire nel partito di Occhetto. Quelli che si guardano intorno, e mi chiamano, e mi chiedono, e mi dicono che se c’è da fare le valigie sono pronti, ma se c’è da combattere pure. Ne ho visti tanti, in questi giorni (a Modena, dove mi hanno invitato a spiegare la proposta di legge sulla cittadinanza; a Città di castello, dove ho parlato di libertà di informazione) e ne ho sentiti per telefono ancora di più: l’addio di Rutelli, così snobbato da molti, ha prodotto in realtà uno squarcio nel sogno. Ha fatto capire, cioè, che per l’impegno riformista ci possono essere altre strade, se quella del Pd diventa impraticabile: e non è una questione di poltrone, come molti di voi mi scrivono nei commenti, ma un disagio crescente (e diffuso) che ha bisogno di risposte. Ecco perché sono contento della decisione di Veltroni di rimettersi in campo, arrivata proprio in un momento delicatissimo: dai colloqui che sto avendo in queste ore – a proposito: quello con Bersani non c’è ancora stato, io continuo a fare pazientemente la fila come un soldatino e poi vi dirò – ho la percezione netta che serva davvero un garante del sogno, qualcuno che metta a disposizione la sua autorevolezza per vigilare sul rischio di manipolazioni genetiche del Partito democratico. Spero che Veltroni abbia la voglia di farlo, perché a me sembra l’unico candidato possibile, e che si sbrighi pure: un suo ritorno in pista da banalissimo capobastone non avrebbe nessun senso, anche perché in quel ruolo siamo già magnificamente attrezzati.