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Fuori due

La porta aperta mesi fa da Pierluigi Mantini, che uscì dal Pd in direzione centro, non è stata ancora richiusa: poco dopo toccò a Lorenzo Ria, poi alla truppa rutelliana (Mosella, Calgaro, Vernetti, Lanzillotta) con veltroniani spiazzati (Calearo), e probabilmente ne sto dimenticando qualcuno perché ormai cominciano ad essere parecchi. Oggi è toccato a Renzo Lusetti ed Enzo Carra, che in conferenza stampa hanno annunciato l’ingresso nell’Udc, motivandolo con una serie di argomentazioni che non sottovaluterei. Quella principale è la solita: il Pd non è più il Partito democratico, del progetto originario è rimasto solo il nome. Probabilmente non ve lo ricorderete, ma è lo stesso concetto espresso all’epoca da Lorenzo Ria, che – quando il congresso era ancora lontano – parlò di una “mutazione transgenica” del partito. La reazione al suo addio fu minimalista: si disse che era un problema locale, perché aveva litigato con il Pd pugliese in seguito a delle primarie non fatte, e che la storia della mutazione transgenica era una scusa. Così come minimalista fu la reazione all’addio di Mantini, derubricato all’ennesima virata di “un voltagabbana, abituato a passare da uno schieramento all’altro”. Di Rutelli e dei rutelliani si commentò che erano solo persone in cerca di potere e visibilità, visto che all’interno del Pd erano ormai ridotti al lumicino: avevano capito che con Bersani conveniva aprire partita Iva e fare i collaboratori esterni anziché accontentarsi di un lavoro da operaio sottopagato. Di Calearo si spiegò che non era mai stato di sinistra, e che dunque aveva sbagliato Veltroni a candidarlo nel Pd. E potremmo trovare ottime scuse, in effetti, anche per l’addio di Lusetti e Carra: del primo, possiamo facilmente ipotizzare un desiderio di vendetta personale, dopo essere stato lasciato solo dal partito durante tutta l’indagine di Napoli sull’affare Romeo, mentre Italo Bocchino – coinvolto come lui nello scandalo – veniva difeso a spada tratta dal Pdl; di entrambi, poi, possiamo ricordare l’elevato numero di legislature, che certamente li avrebbe tagliati fuori dalle prossime liste se fossero rimasti nel Pd, mentre con l’Udc si riaprono i giochi e probabilmente ci sarà spazio per un altro giro di giostra. Su ognuno, insomma, possiamo trovare le giustificazioni che vogliamo, e non è detto che siano analisi campate in aria: probabilmente c’è un pezzo di verità in ogni cosa, come del resto c’è verità nella loro analisi della situazione politica. Né Carra né Lusetti – e lo hanno ribadito nella conferenza stampa di oggi – avevano mai cambiato partito in vita loro: il percorso comune era quello dei cattolici democratici, attraverso le sue evoluzioni storiche (Dc, Ppi, Margherita, Pd). Se anche ci fosse del calcolo nella loro decisione attuale – e certamente credo che ci sia, perché parliamo comunque di due politici navigati – non si può accusarli di mastellismo, rivendicando a noi che restiamo il ruolo di duri e puri. Una scelta del genere deve interrogarci tutti, soprattutto perché è l’ennesima: se scrolliamo le spalle e ci illudiamo di aver tolto di mezzo i clericali, per tenerci solo i cattolici veri, compiamo un peccato enorme di presunzione. Mentre il Partito democratico attuale, a mio modo di vedere, ha bisogno esattamente del contrario: di un sanissimo bagno di umiltà che, se fossi il medico del Pd, prescriverei innanzitutto a molti nostri dirigenti refrattari all’acqua.

Dorina torna a casa

Sul Corriere della sera, che si conferma la nostra Gazzetta Ufficiale, Dorina Bianchi annuncia oggi il suo ritorno nell’Udc. Con un’intervista che condivido quasi in toto e che, in alcuni passaggi, potrei tranquillamente aver concesso io. Tipo questo, per esempio:

Che le ha detto Bersani?
Guardi, ho provato a cercarlo nei giorni scorsi. Lo sa che non mi ha mai richiamato?

Non è comunque per una questione di galateo che la Bianchi se ne è andata, ma perché – dopo tutte le polemiche sul testamento biologico e la RU486 – ha capito che il Pd non era più casa sua. Né avrebbe mai potuto esserlo, a meno che non avesse rinunciato a tutte le sue convinzioni più profonde. A me non è ancora capitato, e combatto ogni giorno perché non accada mai, ma la sua intervista mi dà parecchio food for thought, come dicono gli americani. Ne riporto qualche stralcio e poi ne riparliamo.

Quali motivi l’hanno spinta a lasciare il Pd?
Il Pd è stato una delusione. È inutile tentare una caccia ai colpevoli: non ricerco la polemica (…). Bersani è stato eletto come segretario con il mandato di rafforzare l’ancoraggio del Pd alla storia della sinistra italiana. La mia storia è un’altra. Lo spazio per una presenza identitaria dei moderati cattolici si è ridotto al lumicino: dobbiamo prenderne atto (….). Adesso si tratta di voltare pagina: il Pd potrà consolidarsi sul fronte laico. Noi dialogheremo stando sull’altro versante. (…) Un’anima moderata e cattolica ha difficoltà a stare in quel partito. E sinceramente non credo che piangeranno molto per la mia uscita (…). Speravo che l’amalgama potesse riuscire. Invece, aveva ragione D’Alema.

Perché non è andata con Rutelli?
(…) Ritengo che sia importante favorire l’aggregazione a partire dalle esperienze che ci sono, senza dividerci in altri contenitori. Da un anno a questa parte l’Udc, con Casini, interpreta una posizione politica innovativa che condivido pienamente. La sua bandiera non è l’antiberlusconismo: Casini propone una strategia di alternativa di governo. Non parte da posizioni precostituite: sa quando dialogare con la maggioranza e quando esprimere una posizione ferma. (…). Il Pd è vittima di una contraddizione cocente.: con Bersani vorrebbe proporsi come partito riformista, ma, con Franceschini e la Bindi in piazza, si ritrova ad essere un partito satellite di Di Pietro. Il giustizialismo è il regalo più grande che si possa fare al presidente del Consiglio e ignorare i consensi che il Pdl ottiene è una fuga dalla realtà. Personalmente, spero che almeno una parte del filo spinato che divide le forze politiche in Italia sia messo da parte.

C’è una sola parola di queste 260 che non condivido per nulla: l’aggettivo “identitaria” che la Bianchi abbina al concetto di presenza dei moderati cattolici. Per me, invece, la sfida è quella del pluralismo, non dell’identità. Ma è l’unica critica sensata che posso rivolgerle. Per il resto, mi vengono in mente tre brevi considerazioni. La prima è che, uno ad uno, se ne stanno andando i moderati (lasciamo perdere la categoria “cattolici”, perché non so neppure se Gianni Vernetti e Massimo Calearo lo siano, e certamente Linda Lanzillotta non lo è): appare evidente, dunque, che la ricetta del Lingotto si fa sempre meno praticabile, anche per la mancanza di materie prime.  La seconda è che, in effetti, l’ombra di Di Pietro su di noi è pesantissima: o urli come lui, oppure non fai abbastanza opposizione, e le contestazioni al No B day di ieri ne sono l’ennesima conferma. La terza è che, pur lasciando il Pd, Dorina Bianchi è andata dritta all’Udc senza sentire l’esigenza di fare tappa nell’Alleanza per l’Italia: se la cosa si dovesse ripetere con altri parlamentari, l’intero progetto politico di Rutelli perderebbe buona parte della sua capacità attrattiva e dunque del suo peso specifico. E non escludo, onestamente, che l’evento possa verificarsi di nuovo.

Il garante del sogno

Riprenderò a partecipare alla vita del Pd, ha detto Walter Veltroni al Corriere della sera, che ormai è diventato la nostra Gazzetta ufficiale. Lasci il Pd, come Francesco Rutelli e Linda Lanzillotta? Lo dici al Corriere. Ci resti, come Veltroni? Lo dici al Corriere. Mai nessuno che ci desse una notizia durante un congresso, che ne so, o magari una riunione di gruppo parlamentare, o anche solo in un’assemblea di circolo, quand’anche fosse il circolo della periferia più remota dell’impero: dal mio ingresso in politica in poi (ormai siamo ad un anno e mezzo, quasi due), ho sempre appreso le cose attraverso i giornali. In ogni caso, al di là del metodo utilizzato per l’annuncio, il rinnovato impegno di Veltroni mi sembra una buona notizia: di romanzieri l’Italia ne ha già parecchi, di leader politici credibili un po’ meno. Ed il Partito democratico, in particolare, ha bisogno di qualcuno che garantisca i delusi, i neo-lontani, quelli che avevano creduto ad un progetto e che ora si trovano dentro a qualcos’altro. Quelli che non pensavano di finire nel partito di Occhetto. Quelli che si guardano intorno, e mi chiamano, e mi chiedono, e mi dicono che se c’è da fare le valigie sono pronti, ma se c’è da combattere pure. Ne ho visti tanti, in questi giorni (a Modena, dove mi hanno invitato a spiegare la proposta di legge sulla cittadinanza; a Città di castello, dove ho parlato di libertà di informazione) e ne ho sentiti per telefono ancora di più: l’addio di Rutelli, così snobbato da molti, ha prodotto in realtà uno squarcio nel sogno. Ha fatto capire, cioè, che per l’impegno riformista ci possono essere altre strade, se quella del Pd diventa impraticabile: e non è una questione di poltrone, come molti di voi mi scrivono nei commenti, ma un disagio crescente (e diffuso) che ha bisogno di risposte. Ecco perché sono contento della decisione di Veltroni di rimettersi in campo, arrivata proprio in un momento delicatissimo: dai colloqui che sto avendo in queste ore – a proposito: quello con Bersani non c’è ancora stato, io continuo a fare pazientemente la fila come un soldatino e poi vi dirò – ho la percezione netta che serva davvero un garante del sogno, qualcuno che metta a disposizione la sua autorevolezza per vigilare sul rischio di manipolazioni genetiche del Partito democratico. Spero che Veltroni abbia la voglia di farlo, perché a me sembra l’unico candidato possibile, e che si sbrighi pure: un suo ritorno in pista da banalissimo capobastone non avrebbe nessun senso, anche perché in quel ruolo siamo già magnificamente attrezzati.

L’Alleanza di Rutelli

rutelli

Il simbolo è piuttosto bruttarello, ma dice che cambierà. Il nome è una curiosa coincidenza, se di coincidenza si tratta: non so quanti di voi lo ricordano, ma nel momento di massima tensione con Silvio Berlusconi fu Gianfranco Fini a lanciare il marchio “Alleanza per l’Italia”. Ormai pensava di correre da solo – ed in prospettiva guardava con interesse a Casini, che aveva litigato pure lui con Berlusconi – e pensò di attrezzarsi con un partito nuovo. Lo stesso ragionamento l’ha fatto Francesco Rutelli, che rispetto a Fini ha compiuto un passo in più: ha brevettato quel marchio, finora rimasto in un manifesto politico ed in qualche sito internet che ne riprende i contenuti, e lo ha messo sul mercato elettorale. Non avendo elezioni politiche alle porte – o almeno così sembra, perché in politica ogni mese è un’era geologica – Rutelli può permettersi di provare quello che Fini non ebbe il tempo di fare: andare da solo, appunto, ragionando su tempi un po’ più lunghi. E non è detto che la sua scommessa non riesca: i nomi di chi ha aderito finora al progetto sono tutti di qualità, e confesso che l’addio di alcuni – cito l’ultimo, per me imprevisto: Marco Calgaro – mi fa sentire un po’ più solo all’interno del Partito democratico. Non è solo una questione di rapporti personali, per carità: è che se tutti quelli che rappresentano un’area più moderata se ne vanno via, perché nel Pd temono di non sentirsi più a casa, le possibilità che il loro timore divenga realtà si fanno sempre più grandi. Se vanno via i Calearo, i Calgaro, i Vernetti, le Lanzillotta, i Mosella e non so chi altro ancora (ma potrei citare i Mantini ed i Ria, che se n’erano già andati prima), è chiaro che mutano anche gli equilibri interni; hai voglia poi a dire che è tutta una caricatura, che non è vera la storia della coperta corta perché si può coprire sia a sinistra che al centro. Anche perché, da quanto mi risulta, non c’è nessuno che sia andato via nelle ultime settimane perché questo partito guarda troppo al centro: al contrario, leggo sull’Unità la lettera con cui annuncia il suo rientro Pietro Folena, spiegando che il Pd targato Bersani apre spazi “per una nuova idea ed una nuova prassi della sinistra”. È chiaro, dunque, che gli eventi di queste ultime ore non mi lasciano indifferente: se il Pd mantiene il nome ma perde un pezzo della sua identità, è chiaro che finisce per assomigliare sempre meno a quel partito che si presentò alle elezioni del 2008 e che venne votato da un elettore su tre. Eppure, a differenza dei miei colleghi che hanno preferito lasciare, io penso che – per quanti dubbi si possano avere sul contenitore – la sfida più urgente sia quella di salvare il contenuto, che nel nostro caso è un partito plurale, riformista, vicino ai più deboli e lontano dai privilegi, al cui interno l’umanesimo laico e quello religioso possano ridare un’anima ad un Paese che sembra averla persa. Ecco perché stamattina, anziché raccogliere l’invito dei miei amici a salire sul treno dell’Alleanza per l’Italia, sono rimasto al mio posto in Aula, tra i banchi del Pd, a pigiare bottoni. Peón tra i peones, as usual.

L’esordio

È chiaro che, se volessi fargli le pulci, qualcosa da dire la troverei: Ignazio Marino, per dire, gli ha già chiesto qualche precisazione in più sui diritti civili, mentre gli ecodem gli hanno rimproverato la fretta con cui ha parlato di ambiente. Ma giudicare l’esordio di Pierluigi Bersani dalle cose che non ha detto (e ce ne sarebbero altre, naturalmente) non mi sembra il modo migliore per aiutare la ditta. Se proprio devo criticarlo, e lo faccio subito per togliermi il dente, lo critico semmai su come ha parlato: un’ora di discorso tarato sugli addetti ai lavori, con sottintesi che solo un parlamentare, un sindacalista o un dirigente di Confindustria poteva cogliere appieno. Sentivo Bersani andare avanti nel suo tecno-politichese – reso più simpatico, ma non per questo più comprensibile, dall’accento piacentino e da qualche battuta sparsa – e mi immaginavo con terrore il dibattito televisivo con Berlusconi, capace di farsi capire (e votare) pure dalle vecchiette. Però poi pensavo che Prodi, da questo punto di vista, non era meglio, eppure Berlusconi lo ha battuto due volte: forse perché in certi casi, chissà, proprio il non farlo capire bene dà una patina di autorevolezza a quello che si dice. Andando sui contenuti, ho trovato l’impianto del discorso di oggi molto simile a quello dell’11 ottobre, quando il candidato segretario parlò da candidato premier e, proprio per questo, non venne travolto dagli applausi: innanzitutto, perché Bersani è uno che gli applausi non se li cerca mai, ma al limite li chiede per gli altri (il passaggio di stamattina su Alda Merini, ad esempio, mi ha fatto commuovere); inoltre, perché – calcisticamente parlando – quello è il suo gioco ed è inutile chiedergli di ricoprire un altro ruolo. Il segretario del Pd che ho visto stamattina non è un fantasista alla Veltroni, non è una punta rapida alla Franceschini, ma è un solido uomo di centrocampo che recupera palloni ed imposta gli schemi: di certo non è uno che vive per sé e questo suo aspetto – lo confesso – mi piace molto, perché distingue il Partito democratico da tutte le altre forze politiche presenti in Parlamento. Bersani non ha detto stamattina nessuna cosa pirotecnica ma moltissime cose ragionevoli: ho apprezzato molto il passaggio sulla riforma della politica (superamento del bicameralismo perfetto, riduzione del numero dei parlamentari, moderna legislazione sui partiti, nuova legge elettorale che consenta ai cittadini di scegliere i loro rappresentanti, nuove norme sui costi della politica) e quello sulla questione morale (che però mi aspetto venga applicato immediatamente in Campania, mio collegio elettorale, quando si tratterà di scegliere i candidati alle prossime regionali). Temevo il passaggio sulla libertà di coscienza, ed invece devo riconoscere che Bersani ha spiegato meglio ciò che in altre occasioni aveva detto peggio:

“(…) Come meglio bilanciare, ad esempio, l’ampia dialettica, l’assoluta libertà di espressione, il valore del pluralismo con l’esigenza di preservare l’autorevolezza e l’univocità delle posizioni del Partito. Quando si parla di questo, il pensiero va subito ai temi etici di frontiera. Ma il problema non è questo. Sto parlando invece di una fisiologia che riguarda diffusamente la vita del Partito e che più facilmente impatta nei diversi luoghi del Paese con questioni relative al tracciato di una strada o a un termovalorizzatore o a una nomina piuttosto che a problemi di frontiera. Se siamo forza di governo, e lo siamo; se siamo il Partito di una democrazia partecipata ed efficiente, e lo siamo, dobbiamo essere all’altezza di noi stessi e risultare lineari e affidabili agli occhi dei cittadini che si aspettano risposte e posizioni chiare sui problemi della loro vita comune. Esistono poi anche i temi di frontiera, che possono interpellare la coscienza in modo insuperabile. Non sarà certo difficile trovare gli strumenti che riconoscano questo ambito, percepito peraltro nel senso comune. In realtà sulle questioni etiche e antropologiche il punto principale sta nella dimensione culturale e politica e nella capacità nostra di mettere a frutto nella discussione, nel confronto e nell’impegno lo straordinario bagaglio culturale che ci ispira, fatto di umanesimi forti, laici e di ispirazione religiosa. Umanesimi forti che non dobbiamo annacquare, che sono una forza enorme per noi e che dovranno aiutarci ad arrivare fino al punto in cui deve esercitarsi l’autonoma responsabilità della politica che ha un compito ineludibile: quello di rispondere con delle decisioni, per quanto transitorie e fallibili, alle esigenze del bene comune”.

Una risposta positiva l’ho sentita anche sul fronte del collateralismo: il neosegretario ha rivendicato l’autonomia dal partito da tutte le forze sociali, che vanno sì ascoltate ma poi si ragiona con la propria testa. E poi, lo ammetto, sono stato felice di sentire per la prima volta da Bersani una parola su un tema che finora lo aveva visto un po’ latitante:

“Non fanno bene al nostro Paese posizioni oltranziste sull’immigrazione. Il problema è enorme e siamo convinti che l’Unione Europea debba fare di più ma il nostro Paese non può sottrarsi al dovere di fornire asilo e protezione a chi ne ha diritto e necessità né riteniamo che l’Italia possa scegliere le posizioni più arretrate e miopi sul tema della cittadinanza”.

Alcuni dei dubbi che avevo in testa, insomma, me li sono chiariti con il discorso di oggi. Altri li affronterò direttamente con Bersani, quando ci incontreremo, e naturalmente vi terrò aggiornati.