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Scusate il ritardo

Dopo un numero cospicuo di direzioni regionali, delle quali ho perso il conto, ieri sera il Pd campano ha deciso ufficialmente che si faranno le primarie. Entro le 12 di domani vanno raccolte le firme per le candidature (ne servono 1500), poi parte una mini-campagna elettorale di una settimana e domenica 7 febbraio si vota. Era la decisione più normale – bastava leggere lo Statuto: per ogni carica monocratica ci vogliono le primarie, a meno che il 60% dell’assemblea voti contro – ma ci si è arrivati solo ora perché si voleva evitare una spaccatura interna. La politica napoletana – da quello che sono riuscito a comprenderne, in questi due anni – è una disciplina a parte, giocata molto sul piano personale, con scontri particolarmente aspri ed alleanze ballerine, in un magma continuo di posizionamenti, in cui l’importante è spesso non prenderle. L’esempio concreto è stato il Congresso, laddove – una volta chiaro che il segretario regionale sarebbe stato il candidato bersaniano Enzo Amendola, perché aveva i numeri – anche molti franceschiniani salirono sul suo carro, tanto che ai gazebo si trovavano liste con Amendola per Bersani e liste con Amendola per Franceschini. Apro parentesi: tre mesi dopo, i grandi sponsor dell’operazione con Amendola per Franceschini sono già usciti dal Pd. Chiudo parentesi. Anche stavolta, dunque, c’era l’intenzione di trovare un candidato unitario, e da parte mia sarebbe ingeneroso ridurre il tutto al desiderio di non prenderle: c’era anche – anzi, direi soprattutto – una preoccupazione di tenere insieme i voti dei bassoliniani e quelli degli antibassoliniani, visto che partiamo con parecchi punti di svantaggio dal Centrodestra e se vogliamo provare a vincere non possiamo perdere per strada neanche una scheda. Di più: una candidatura unitaria, scelta a tavolino e dunque “controllata”, avrebbe tenuto conto anche dei veti dei nostri alleati, che non sono proprio degli angioletti, evitando che il 28 marzo la coalizione di Centrosinistra si ritrovi con più di un candidato. Ma il nome non è uscito, per una serie di motivi, e quindi si torna alla soluzione naturale, mentre il Centrodestra ha già fatto partire la campagna elettorale e si fatica pure a trovare un buco per attaccarci un manifesto. Chi si candida? Risposta facile: un bassoliniano ed un antibassoliniano. Più, forse, un terzo uomo, rifugio per chi non vuole farsi schiacciare dalla contesa. Il primo è un uomo di esperienza, senza macchia, del quale mi parlano ancora bene i colleghi parlamentari che lo hanno conosciuto alla Camera nelle scorse legislature; il secondo è uno dei sindaci più amati d’Italia, protagonista di un mezzo miracolo (quando Napoli era invasa dalla monnezza, Salerno non aveva un sacchetto di plastica per strada ed era fra i Comuni più ricicloni d’Italia); il terzo, se ci sarà, è un uomo dei territori, giovane e rampante, con un bel profilo anticamorra. Ma non credo che la campagna per le primarie punterà sulle qualità dei singoli: al contrario, temo che si cercherà di spiegare perché vada evitata ad ogni costo la vittoria dell’avversario. Di Riccardo Marone si dirà che è la longa manus di Bassolino e del suo apparato, di Vincenzo De Luca si dirà che è un fascistoide lontano anni luce dal progetto del Pd, dell’eventuale terzo uomo – che non nomino, per preservarlo in caso decidesse di non candidarsi – si dirà che è destinato a fare la fine dell’erba quando litigano due elefanti. Ma il problema, per quanto mi riguarda, non è neppure questo: la settimana, seppure infuocata, passerà presto. Il problema è l’altro mese e mezzo che ci separerà dalle elezioni vere e proprie, quando avremo di fronte il candidato del Pdl, Stefano Caldoro: chiunque vinca alle primarie del Pd, saremo poi capaci di sostenerlo lealmente?

Il gioco dell’Opa

Vendola ha vinto, D’Alema ha perso: noto che è questa l’interpretazione ricorrente, e non mi costerebbe nulla aggregarmi al gruppo, tanto più che al congresso ero dall’altra parte. Ma siccome il congresso è finito da un pezzo, non cedo alla tentazione facile dell’antidalemismo e mi imbarco in un’impresa più faticosa e meno redditizia: quella di ragionare. Partendo, però, da una premessa che, a forza di dare per scontata, nessuno sottolinea: tra il metodo Brunetta e le primarie mi tengo le primarie. Nel primo caso, rischi di trovarti uno che fa il sindaco di Venezia come terzo lavoro – essendo già ministro e deputato – e ti tocca stare zitto, perché vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare. Nel secondo, rischi che le strategie di alleanze saltino in aria, ma almeno hai reso onore a quell’aggettivo – democratico, appunto – che distingue te da tutti gli altri, perché sugli altri pianeti politici (tutti, compresi quelli più a sinistra di noi) la forma di vita democratica non è ancora arrivata e forse non arriverà mai. Detto questo, è chiaro che se vivi in una campana di vetro non muori di peste bubbonica: Pdl, Lega, Idv e Udc non correranno mai i rischi che stiamo correndo noi, il più rilevante dei quali mi pare oggi la nostra debolezza di fronte ad un tentativo di scalata. Emma Bonino nel Lazio ne è stata un esempio, Nichi Vendola in Puglia un altro, e se l’Idv trovasse un candidato per la Campania arriveremmo a tre: chiunque oggi può pensare di lanciare un’OPA sul Pd ed ha discrete possibilità di vincerla, indipendentemente dalle sue condizioni di partenza, perché troverà sempre una sponda fra gli azionisti. La Bonino non ha neppure avuto bisogno di provarci: è bastato il nome, per consegnarle le chiavi. Vendola – che ufficialmente poteva contare su un partito del 3%, come Sinistra e libertà – ci è riuscito passeggiando, e non solo perché la gente lo ama: la verità, se vogliamo dirla, è che parecchi dei nostri hanno giocato contro D’Alema, così come in tempi passati parecchi giocavano contro Veltroni. E mettiamo il caso che domani, nel senso di domani, De Magistris lanci la sua candidatura alle primarie di coalizione per la Campania, contro un nome del Pd: trovatemene uno che tenga insieme il partito, al di là delle dichiarazioni di facciata, e che possa resistere alla scalata. Candidiamo Cascetta, ottimo assessore ai trasporti ma bassoliniano? Mezzo Pd non lo vota. Candidiamo De Luca, ottimo sindaco di Salerno ma antibassoliniano? Non lo vota l’altra metà. Ed il candidato dell’Italia dei valori – partito che in Campania vale il 7-8% dei voti – porta a casa il banco. Come è risolvibile questa situazione, per il futuro? Forse facendo le nostre primarie con molto anticipo, per poi presentarci al tavolo degli alleati con un candidato forte e legittimato dal consenso popolare; ma questo porrebbe certamente qualche problema nelle trattative, perché significherebbe non cedere mai un candidato al resto della coalizione. Se avete un’idea migliore, che salvi le primarie ma fermi il gioco dell’Opa, siate generosi: non tenetela per voi.

Il fuoco e le castagne

Del caso Bonino ho già parlato sul blog e, per quanto mi riguarda, non intendo farlo diventare un tormentone: la tentazione di remare contro non mi è mai venuta, né mi verrà ora che la partita è chiusa. Ma ritenevo importante fare una riflessione pubblica sulla vicenda – non che il blog non sia uno spazio pubblico, ma qui mi sento più in famiglia – e così ho inviato un contributo al direttore del Riformista, Antonio Polito, che oggi lo ha pubblicato. Tra parentesi quadre, i piccoli tagli redazionali. Buona lettura.

Ora che i giochi sono fatti, almeno nel Lazio, qualcuno sostiene che il Partito democratico dovrebbe ringraziare Emma Bonino, per averci tolto le castagne dal fuoco. Nessuno dei nostri candidati possibili, mi viene spiegato, avrebbe avuto la sua autorevolezza e la sua credibilità, nel mostrare all’elettorato di Centrosinistra che un nuovo inizio era possibile. Per rimettere in piedi le macerie mediatiche dell’affare Marrazzo serviva una personalità al riparo dal gossip, e la Bonino è [così] lontana da ogni sospetto [che due anni fa si prese pure il lusso di dare una lezione ai giornalisti politici, fingendosi innamorata per vederne l’effetto sulla stampa]. Per gestire un tema delicato come il governo clinico – che investe il problema dei rapporti fra politica e Sanità – c’era bisogno di una figura fuori dagli schemi partitocratici, capace di prendere decisioni coraggiose, e la Bonino certamente lo è: proprio questo tema, poi, è al centro delle battaglie radicali da parecchio tempo, prima ancora che in diverse Regioni scoppiassero scandali di vario colore politico. Per tenere testa a un avversario di peso come Renata Polverini, infine, occorreva un candidato energico, mediatico, trasparente, possibilmente donna: come Emma Bonino, appunto, che il segretario del Pd ha definito “una fuoriclasse”.
Il problema, però, è un altro. Il problema è che il maggiore partito del Centrosinistra – luogo politico che in Parlamento significa opposizione, ma alla Regione Lazio vuol dire governo – non deve mai appaltare a nessuno la gestione delle caldarroste: toglierle dal fuoco, anzi, è il suo mestiere, perché è questo che gli alleati si aspettano dal Pd. Se ha paura di scottarsi le mani, lasci perdere: si faccia invitare a pranzo dagli altri, che ogni volta decideranno quantità delle castagne e tempi di cottura. Ed è quello che temo accada proprio nella mia Regione, dove il Partito democratico – scegliendo di saltare un giro – ha temporaneamente abdicato ad una delle sue missioni più profonde, quella di essere la locomotiva del cambiamento e non un semplice vagone. Di essere un partito vero, insomma, capace di produrre innovazione politica e, per giunta, in modo democratico.
La questione dell’aggettivo non è residuale, perché proprio sulla democrazia interna il Pd aveva costruito la propria identità: a cominciare dal Lingotto, per finire alla recente campagna congressuale, che Pierl Luigi Bersani ha vinto ribadendo l’importanza delle primarie per la scelta dei candidati. Quelle primarie che in Puglia si faranno solo perché l’artiglieria nemica non è ancora schierata, ma che nel Lazio sono saltate per mancanza di tempo; eppure, si potevano prevedere già dai primi di novembre, quando l’affare Marrazzo – di cui trapelavano indizi addirittura in estate – aveva mostrato l’impossibilità di una ricandidatura del governatore uscente. Non è più il momento per fare altri nomi, per carità, ma tra i miei colleghi di partito i nomi si potevano trovare: eppure, si è preferito aspettare fino all’ultimo momento utile, per poi accorgersi che quel momento era passato. E affidarsi, dunque, ad un appalto esterno: la candidatura di Emma Bonino, appunto, che – per quanto fuoriclasse – lascia aperte alcune questioni nel gioco di squadra.
Io sono cattolico, la Bonino è radicale: sarebbe facile, dunque, derubricare il tutto all’ennesima puntata della lotta guelfi-ghibellini, che però non mi appassiona [per niente]. Non mi appassiona in generale, perché ritengo faccia male all’Italia, e tantomeno ne vedo la necessità all’interno del Partito democratico, dove l’impegno politico di ogni cristiano può trovare senso soltanto nello sforzo di gettare ponti tra culture diverse. Ma tra lasciare il Pd, come hanno fatto diversi miei colleghi nelle ultime settimane, e cedere alla tentazione di minimizzare in nome della ragion politica, come stanno facendo altri, ci deve essere una terza via. Che è poi quella di cercare un confronto serio sul programma di governo, prima ancora di appassionarsi al puzzle delle liste: visto che Emma Bonino è anche il nostro candidato – si chiedeva nei giorni scorsi Silvia Costa – dobbiamo trovare delle risposte condivise sulle politiche per la famiglia, sulla solidarietà sociale, sul rapporto tra istituzioni civili e religiose. E trovarle insieme, tanto per essere sicuri che le castagne appena tolte dal fuoco non vadano di traverso a un discreto numero di elettori del Pd.

Vi farò sapere

Avevo resistito in silenzio finora. Non parlerò, mi ero ripromesso, fino al giorno in cui la candidatura di Emma Bonino alla Regione Lazio, da parte del Pd, non sarà ufficiale. Quel giorno è oggi, signori miei, e qualcosa da dire ce l’ho anch’io, perché – al di là del ruolo che ricopro, e che dunque mi richiede una responsabilità maggiore rispetto all’elettore medio, oggi di qua e domani di là – il mio encefalogramma non è ancora piatto. Parecchi dei nostri se ne sono già andati (ieri gli ultimi due, Carra e Lusetti, denunciando gli errori compiuti nel metodo e nel merito rispetto alla candidatura nel Lazio), altri probabilmente se ne andranno. Qualcuno di voi esulta pensando alla Binetti, io certamente no, e con me una buona fetta di elettorato che comincia a porsi domande. Parlo dei cristiani impegnati in parrocchia, negli scout, nelle Acli o nella Caritas, nella Comunità di Sant’Egidio o nel Meg, nei focolarini o nell’Azione cattolica: sono in tanti che, in queste ore, mi scrivono privatamente per chiedermi che cosa stia accadendo e come mai ci siamo ridotti a questo, a nasconderci dietro la candidatura di Emma Bonino. Non lo so, cari amici, e forse questa è la cosa più grave. Non so perché si sia tirata così avanti la candidatura di Zingaretti, non so perché non si sia sondata la disponibilità di alcune persone che certamente non si sarebbero tirate indietro (Giovanna Melandri, Achille Serra), non so perché non si sia andati in pellegrinaggio a Bruxelles da Silvia Costa, che con i suoi 117 mila voti di preferenza alle Europee è stata la donna più votata in Italia, non so perché non si sia acchiappato a forza il primo imbecille (Giachetti, Touadi, Bachelet: tutti amici miei, che non si offendono se li chiamo imbecilli) e non lo si sia obbligato a metterci la faccia. Perché l’aspetto allucinante della vicenda, Bonino o non Bonino, è che il Pd – il primo partito della maggioranza uscente, in Regione – non abbia trovato una faccia propria ed abbia preferito esternalizzare il servizio, tipo le aziende con i call center, appaltandolo ai radicali. Mi ribatterete che anche con Prodi si decise di esternalizzare il servizio, candidando a premier uno che non veniva dai Ds o dalla Margherita, ma la differenza sta tutta nel passato: con Prodi si sceglieva qualcuno senza appartenenze politiche alle spalle, con la Bonino si sceglie qualcuno che delle battaglie di parte fa una bandiera da trent’anni. E questa parte non è sempre stata la mia, il che – riconoscetemi l’onestà – qualche problema me lo pone. Le possibilità, a questo punto, sembrano due: andarsene perché la goccia ha fatto traboccare il vaso oppure minimizzare in nome della ragion politica, dicendo che Emma Bonino è una fuoriclasse e tanti saluti. La prima strada, ricordavo, è già stata imboccata da alcuni cattolici – e quei laici che ora li accusano potrebbero chiedersi che cosa avrebbero fatto loro se la candidata del Pd alla Regione Lazio fosse stata Paola Binetti – ma per me significherebbe gettare la spugna troppo presto. La seconda è già stata tracciata dal segretario e sposata da parecchi dirigenti locali, per ragioni diverse: molte delle quali, mi spiace dirlo, più legate alla propria sopravvivenza politica che al progetto ideale del Pd. Io però non condivido nessuna delle due vie e mi concentro sulla terza, che è quella dell’appoggio condizionato. Da un lato, cercherò di fare il possibile per tirar fuori il meglio delle storiche battaglie radicali: penso alla trasparenza nella Sanità, innanzitutto, ma anche all’anagrafe degli eletti, all’attenzione per i più deboli, al rispetto delle libertà religiose e così via. Dall’altro, visto che il candidato mi è stato imposto, cercherò almeno di non farmi imporre il programma di governo; per questo, condivido e rilancio le tre condizioni poste oggi da Silvia Costa – che prima di arrivare al Parlamento europeo era assessore regionale all’Istruzione – in un articolo su Europa:

1- La nostra Costituzione è laica ma non  agnostica e delinea anche per la famiglia una precisa configurazione non confessionale, ma giuridicamente e socialmente rilevante e specifica, tale da legittimare politiche dedicate.

2- La solidarietà sociale ed economica, secondo il dettato costituzionale, è un “dovere”, e non può essere tutta catalogata come assistenzialismo. Il crinale  è nella sua capacità di promuovere insieme autonomia, condizioni di uguaglianza, relazioni sociali più significative ma anche  di riconoscere il ruolo delle organizzazioni e delle associazioni che le tutelano. Per noi questo è un tema centrale.

3- Il rapporto tra istituzioni civili e religiose si basa sul rispetto reciproco, l’ autonomia delle due sfere ma anche sulla capacità di collaborare per il bene comune. La realtà di Roma e della Regione è ricca di esperienze, pratiche e organismi realizzati dalla storia della Chiesa nelle sue componenti religiose e laiche. Riconoscere e valorizzare questi soggetti e questi servizi alla comunità è per noi un aspetto della cultura di Governo che non fa coincidere il pubblico solo con la gestione pubblica ma con le garanzie di accessibilità, qualità ed efficienza che pubblico e privato devono assicurare anche in base al principio costituzionale  del pluralismo nelle e delle istituzioni.

Famiglia, Stato sociale, rapporti con la Chiesa: quando avrò letto il programma della Bonino, vi farò sapere.

La legge in freezer

Segnatevi questa data, perché ne riparleremo. Il 12 gennaio 2010, con 32 voti di scarto, la maggioranza ha deciso di rimandare in Commissione il testo sulla cittadinanza, con l’impegno di approfondire meglio i temi più delicati (in primis, i minori) per poi arrivare ad un testo condiviso. Così, almeno, recitano i resoconti parlamentari, perché questo è ciò che è stato detto poco fa in Aula dai rappresentanti del Pdl. Che non potevano esprimere pubblicamente le due ragioni vere della messa in freezer, ossia la paura di spaccarsi a ridosso delle Regionali e quella di regalare vagonate di voti alla Lega, ma io le sapevo già e tutto sommato non mi interessano molto. Quello che mi interessa davvero – lo ripeto per la millesima volta – è portare a casa qualcosa di decente, che sia una legge firmata il 15 agosto sulla spiaggia (il patto del ghiacciolo) o il 25 dicembre sulla neve (il patto del vin brulé), ma andrebbe bene anche l’11 ottobre nel bosco (il patto del porcino) o il 21 aprile in un giardino fiorito (il patto dello starnuto). Quando vi pare, ragazzi miei, ma facciamolo, nonostante la Lega e nonostante l’invasione di falchi che – con l’approssimarsi del voto – sta rendendo meno azzurro il cielo del Pdl. Stamattina, per dire, ce n’era uno nero nero in Commissione Affari Costituzionali: era Nitto Palma, sottosegretario agli Interni, che ha sproloquiato contro la cittadinanza ai minori perché, a suo avviso, sarebbe un moltiplicatore di ricongiungimenti familiari che poi renderebbe “inespellibili” molti immigrati. L’unica differenza tra un minore cittadino italiano ed uno non cittadino, ha poi spiegato, è l’indennità di accompagnamento per gli invalidi: tanto vale riformare quella, anziché mettere mano alla cittadinanza! La sua mail è segreteria.palma@interno.it, per chi volesse chiarirgli le idee: credo che ne abbia bisogno, visto che – come potete leggere dalla sua scheda istituzionale – la materia dell’immigrazione è espressamente esclusa dalle sue competenze. Qualcuno dei miei colleghi si è preoccupato, dopo averlo sentito parlare così; io, forse per l’incoscienza del neofita, ho derubricato il tutto a tattica politica pre-Regionali, perché solo un discorso del genere poteva tenere il Pdl attaccato alla Lega, come sarà da qui all’ultimo istante prima del voto. Ma quello che accadrà il giorno dopo, onestamente, è difficile da prevedere: il mio amico Fabio Granata è ottimista, perché crede che un clima più disteso possa favorire gli spiriti liberi; molti miei colleghi del Pd la pensano al contrario, perché temono che un ottimo risultato della Lega (quasi certo, visto il traino delle candidature in Veneto e Piemonte) possa rappresentare la pietra tombale su ogni discussione futura. Io la vedo come Fabio, quindi non mi fascio la testa prima di essermela rotta: gli emendamenti bipartisan che avevo ripresentato ieri sera li ho rimessi nel cassetto, ma sono sempre lì. E noi siamo qui, a vigilare sul comportamento di una maggioranza che, a questo punto, ha davvero esaurito gli alibi.