I super doveri

Purtroppo nella politica italiana, soprattutto in campagna elettorale, ci si combatte a colpi di slogan. Tu ti inventi il permesso di soggiorno a punti, io ti rispondo che la prossima invenzione saranno i diritti umani a punti, tutti e due andiamo sui giornali ma chi ci legge non capirà nulla della questione. Poi arrivano Crespi o Pagnoncelli, chiedono alla gente che cosa pensa del permesso di soggiorno a punti e l’elettore medio – che di suo non è un esperto di flussi migratori, né di politiche del lavoro – finisce per votare lo slogan che gli è piaciuto di più. Meno male che ogni tanto c’è qualcuno che ragiona e che – soprattutto – tenta di far ragionare gli altri: ancora una volta è la professoressa Giovanna Zincone, docente all’Università di Torino e consulente del presidente Napolitano per i problemi della coesione sociale. Leggete la sua riflessione sulla Stampa di oggi (“I super doveri degli immigrati”) e soprattutto fatela girare, mi raccomando.

La cittadinanza dell’Ue e quelle dei singoli Paesi membri seguono due logiche antitetiche. Il permesso di soggiorno a punti rischia di imitare quella sbagliata. Vediamo perché. L’Ue, in quanto figlia non troppo degenere della Comunità economica, adotta una cittadinanza che segue la logica della libera circolazione: incentiva le persone a muoversi dove ci sono più opportunità. La cittadinanza nazionale segue la tradizionale logica dello stato-nazione: pretende comunanza di cultura e di lingua, incentiva le persone a radicarsi sul territorio. Per diventare cittadino europeo basta avere la nazionalità di uno dei Paesi membri, poi si va e si lavora dove si vuole. Non si chiede ai cittadini comunitari di conoscere la lingua, la cultura, le istituzioni dei paesi dell’Unione in cui emigrano. Al contrario, le singole cittadinanze nazionali chiedono assimilazione, vogliono e inducono stabilità. Per naturalizzarsi occorre essere lungo-residenti, oppure essere nati sul territorio, o avervi studiato per un po’ di anni. L’europeo è invitato ad andare negli altri Paesi dell’Unione senza vincoli, mentre il non comunitario che vuole diventare cittadino del singolo Paese deve restare fermo e assimilarsi.

La differenza è comprensibile. Per concedere un diritto che segna l’appartenenza ad una comunità civile lo Stato chiede garanzie. Non vuole dare un titolo importante a chi stia lì quasi per caso, deve capire se chi vuole entrare nel club fa sul serio, anche se alcuni segnali di questo «fare sul serio» variano. Oggi nell’Unione il requisito della residenza va dal minimo di 3 anni in Belgio al massimo di 12 in Grecia (ma quel governo intende ridurlo a 5 anni). Per gli altri segnali di integrazione stiamo assistendo, invece, ad un trend convergente. In quasi tutti i Paesi europei una certa conoscenza della lingua è sempre stata valutata quando si trattava di concedere la naturalizzazione, ma per lo più non si chiedevano prove formali. Da quando, nel 1999, la Germania ha inserito per legge la conoscenza del tedesco, molti Paesi hanno seguito il suo esempio. Poi sono arrivati i test di integrazione, introdotti in Gran Bretagna nel 2002. Anche i test hanno attecchito alla grande, e servono non solo a valutare la competenza linguistica, ma anche la conoscenza della cultura, della storia, della vita civile del Paese di immigrazione. Per fornire le conoscenze ritenute necessarie si sono allestiti corsi di integrazione: ad aprire la pista in questo caso è stata l’Olanda, e di lì i corsi si sono diffusi a macchia d’olio.

L’asticella da superare per diventare cittadino si è talvolta abbassata sui tempi, ma si è alzata per le prove di integrazione. Alcuni esperti considerano queste richieste eccessive e inutili: se un individuo se la cava a vivere e a lavorare senza conoscere bene una lingua, se la può cavare altrettanto bene a votare, una volta che sia stato promosso a cittadino. D’altronde i regimi democratici, con il suffragio universale, hanno concesso la cittadinanza politica anche agli analfabeti. Quanto al caso italiano, fin troppi commentatori hanno già osservato che si pretende dai nuovi cittadini una cultura pubblica che non dimostrano di avere neppure molti parlamentari. Ma questi argomenti funzionano solo se vogliamo continuare ad accontentarci di una democrazia scadente. Altrimenti, proprio dai requisiti che imponiamo agli immigrati perché vogliamo nuovi cittadini competenti, dovremmo prendere spunto per chiedere altrettanto ai nostri concittadini per diritto ereditario. Anziché abbassare l’asticella per gli stranieri, dovremmo saltare tutti un po’ più in alto. Questo implica prendere molto più sul serio l’educazione civica, proporre palinsesti radiotelevisivi appetibili ed eticamente intensi. L’esigente approccio nei confronti dei nuovi cittadini potrebbe offrire uno spunto per chiedere maggiore competenza ai candidati alle elezioni di ogni ordine e grado. Si tratterebbe sia di ristabilire un cursus honorum, una carriera basata sull’apprendimento graduale, sia di restituire ai partiti quella funzione di educatori civili che svolgevano utilmente in passato.

Ma se la severità nelle richieste che facciamo ai nuovi cittadini può essere utile per costruire una democrazia più adulta, non si capisce invece a cosa servano pretese di assimilazione rivolte a chi è qui solo per lavorare. È sensato imporre una buona conoscenza della cultura storica e civica, dei meccanismi del welfare del nostro Paese anche a chi non intende radicarsi e non vuole diventare cittadino? Lo si è già fatto con il pacchetto sicurezza per la concessione della carta di soggiorno, che si può ottenere dopo 5 anni di residenza regolare, adesso pare che lingua e cultura diventino una condizione per restare a lavorare in Italia dopo un tempo di residenza anche più breve. Ma se uno straniero investe tanto per imparare lingua e cultura del luogo, sarà poi riluttante a spostarsi altrove, a tornare in patria. Il suo progetto iniziale, magari a breve termine, si trasformerà in un progetto stanziale a lungo termine. Se si può accettare la sfasatura tra una cittadinanza europea mobile, concepita in una logica economica, e una cittadinanza nazionale stanziale, concepita in una logica da stato-nazione, non si capisce perché calare la cappa della logica statuale anche ai permessi di soggiorno per motivi di lavoro. Perché imporre ai lavoratori stranieri l’obbligo di assimilarsi? Non ci basta che rispettino le nostre leggi e i valori portanti delle nostre democrazie? Meraviglia che forze politiche convinte dei benefici di un’immigrazione circolare, fluida, si adoperino per spingere gli immigrati a diventare stanziali.

6 risposte a “I super doveri

  1. Grazie Andrea,
    è veramente molto interessante e soprattutto chiarissimo. Ancora una volta ti chiedo: ma davvero noi cittadini dobbiamo continuare a rimanere impassibili davanti a tutto quanto sta accadendo? Non possiamo proprio fare nulla?
    Il rischio molto pericoloso che stiamo correndo è quello di cadere in un generale appiattimento delle coscienze. Non ti sembra?

  2. @ Jonathan: il problema è che, purtroppo, oggi basta lo slogan. Per capire bisogna perderci un po’ di tempo e nessuno sembra averne…

  3. Buone riflessioni. Di fronte alla proposta del permesso di soggiorno a punti, facevo le stesse riflessioni: avrebbe un senso per la cittadinanza, ma non per il permesso di soggiorno.

    Comunque, a mio parere, un compromesso sulla cittadinanza potrebbe essere questo: 7 anni di residenza (effettivi, senza dilazioni burocratiche) per ottenere la cittadinanza, senza alcun ulteriore “requisito” richiesto … con la possibilità, però, di avere qualche “sconto” sugli anni di residenza se nel frattempo si dimostra di aver conseguito i famosi requisiti (conoscenza della lingua, delle leggi, ecc.), fino ad un minimo di tre anni di residenza se si raggiunge un “punteggio” molto elevato nei “requisiti”.

    Una sorta di miscuglio, insomma, tra la normativa attuale, il ddl Sarubbi-Granata e il “sistema a punti”. Un miscuglio che risolverebbe molte delle osservazioni fatte sulle varie proposte sulla cittadinanza:

    – rimane la possibilità di conseguire la cittadinanza anche senza dove dimostrare un bel nulla se non gli anni di residenza, in modo da superare la giusta critica di chi dice che agli “Italiani per nascita” non vengono richiesti gli stessi requisiti (e, se lo chiedessero, dovremmo strappare la cittadinanza a molti);

    – con i “7 anni” si va incontro a chi dice che stiamo “svendendo” la cittadinanza (ricordate una vecchia raccolta firme di Forza Italia denominata “Italiani in 5 anni? No Grazie”);

    – vero che con questa proposta in teoria si potrebbe ottenere la cittadinanza in soli 3 anni o comunque in pochi anni, ma solo se si dimostra una certa integrazione: quindi, visto che questa gente che critica la “cittadinanza facile”al tempo stesso dice che non ha alcun problema nei confronti degli immigrati “integrati”, non potrebbero aprire bocca;

    – il sistema del punteggio abbinato al numero di anni di “sconto” introduce una giusta gradualità che altre proposte non prevedono.

    Chiamatelo pure ddl Zanfardino 😛

  4. Ovviamente, nessuna riforma avrebbe senso se non si prevede una rete di assistenza agli immigrati per aiutarli ad integrarsi … come si pretende che imparino l’Italiano e le leggi se non si prevedono corsi per insegnargli queste cose?

  5. Sono cittadino senegalese, maestro di scula elementare con ottima formazione e esperienza professionale in Senegal.
    Sono mediatore culturale in Italia e nel Lazio da più di dieci anni. Mediatore per passione e più a “Gratis ” anche se tutti gridanno forte l’importanza del mediatore.
    Per senso di responsabilità visto che sono padre di due bambine fatima 12 anni e Myriam sei anni nata in Italia ho sempre dato priorità al lavoro sicura che permette di portare uno stipendio a casa. Ho fatto il bracciante agricolo stagionale per 4 anni per permettermi di lavorare da insegnante e/o mediatore precario.
    Ho investito sulla mia personna facendo sempre corsi dall’assistenza plivalente alle personne , al Webmarketing.
    Ho dato tanto all’Italia , chiedo solo rispetto della mia dignità umana. Chiedo di poter continuare a dare mio contribuito a questo paese che ho scelto non per disperazione ma per interesse culturali.
    Mia figlia è senegalese solo sulla carta ma italiana effettiva quando lo sarà?
    Sono grato all’Italia per dare la forza di avere la consapevolezza delle mie responsabilità per un futuro migliore sia per l’Italia , per l’Europa e per l’Africa.
    Chiedo a tutti un sostegno per la realizzazione del nostro progetto di creazione della Banca Etica della Diaspora Africana.
    Lottare contro la povertà , creare la BEDA è mio e spero tuo lettore un contribuito concretto verso il rispetto della dignità umana. Siamo tutto cittadini del Mondo.
    Vivere semplice per semplicemente fare vivere gli altri.
    Solidarietà Internazionale con gli africani nel Mondo.
    SI-A.MO italiani ed africani.

  6. @ Ibrahima Camara:
    grazie per aver condiviso la tua significativa esperienza e per il dono prezioso della tua presenza fra noi che sono certo contribuirà a far crescere fra tutti noi una convivenza più solidale e fraterna. Un abbraccio Jonathan

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