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L’Italia in pugno

Non mi ero mai accorto, nei tanti anni di A sua immagine, di avere l’Italia in pugno. Non mi rendevo conto che a volte basta un versetto del Vangelo, una parabola, un ospite… e zàcchete, hai condizionato l’esito delle elezioni. Vuoi fare un piacere all’Udc, in campagna elettorale? Citi Matteo 6,3: “Non sappia la sinistra che cosa fa la destra”. Vuoi difendere il Pdl milanese, dopo che un suo consigliere comunale è stato pescato con la mazzetta in mano? Ripeschi Lc 16,8: “Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza”. Vuoi spostare valanghe di voti a favore del Pd? Inviti in trasmissione il deputato romano Giovanni Bachelet, con la scusa di farlo parlare dell’assassinio di suo padre. E per non dare nell’occhio, da gran furbo che sei, hai pensato proprio a tutto: la trasmissione è al di fuori di ogni sospetto (A sua immagine che fa propaganda per la Bonino: sei un genio del male!), alle Regionali manca ancora un mese e mezzo e – soprattutto – è proprio il trentesimo anniversario della morte di Vittorio Bachelet. Ma da oggi, signori miei, la pacchia è finita, l’inganno è stato smascherato, i burattinai del consenso verranno mandati a casa: la Rai ha infatti deciso di non trasmettere la puntata di A sua immagine prevista per oggi pomeriggio perché, al suo interno, c’era della pericolosa propaganda politica. C’era Giovanni Bachelet, appunto, che parlava di suo padre e del concetto di perdono, a trent’anni di distanza dalla famosa preghiera per gli assassini di Vittorio durante il funerale. Dice sempre il Vangelo, utilizzando il concetto del sabato ebraico, che la legge è fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge. Il precetto vale pure per i regolamenti elettorali della Rai, il cui unico senso è impedire che la tv pubblica sposti voti da una parte o dall’altra; eppure, gli alti dirigenti che oggi ho contattato – per esprimere loro la mia incredulità e cercare di farli ragionare – mi hanno risposto che in Rai le leggi non si interpretano: si applicano. Tanto è vero che sabato prossimo, nella serata finale del Festival, il sindaco di Sanremo (di Centrodestra, perché l’ottusità non fa distinzioni) non potrà salire sul palco per consegnare il premio al vincitore. Né Giovanni Bachelet, né Maurizio Zoccarato sono candidati alle prossime elezioni: il primo è un parlamentare, e non si vota per le Politiche; il secondo è un sindaco eletto da pochissimo, dunque a Sanremo non si vota per le Amministrative. Non la tiro troppo per le lunghe e mi limito a due commenti. Il primo è che, nella società di oggi, tutto è politica e dunque tutto potenzialmente sposta voti: le canzoni di Povia (che l’anno scorso, con il gay tornato etero, erano considerate di destra e quest’anno, con Eluana, di sinistra), le puntate di Linea blu (che possono far vedere una spiaggia tenuta bene o male e dunque danno un messaggio subliminale sull’amministrazione locale), perfino il campanilismo regionale quasi leghisteggiante dei pacchi di Affari tuoi. L’unico modo per non rischiare, allora, è quello di mandare in onda il monoscopio, da qui al 28 marzo, così almeno uno sintonizza bene il digitale terrestre. La seconda considerazione riguarda un’altra metafora evangelica, quella della trave e della pagliuzza: avevo sempre creduto che il problema di un’informazione squilibrata in Italia fosse il conflitto di interessi, ma evidentemente mi sbagliavo.

Ps. Qui trovate la mia intervista su L’Unità

Tre indizi e una prova

Tre indizi fanno una prova. E per tre volte, nel giro di poche ore, sono stato attaccato personalmente in altrettante controversie politiche: tre problemi diversi (il testamento biologico, la deportazione dei rom dal Casilino 900, la macellazione dei cavalli), tre interlocutori diversi (un deputato leghista, un senatore Pdl, un giornalista del Foglio), tre attacchi in fotocopia. Tutti centrati sul mio passato televisivo, come se fosse una colpa.

Primo atto. Nella discussione sul testamento biologico, vi dicevo l’altro giorno, siamo al muro contro muro: basta che un emendamento contenga una parola problematica (volontà, autodeterminazione, articolo 32, invasivo…) e la maggioranza lo boccia. Così sono intervenuto per protestare, chiedendo al Centrodestra di fare chiarezza: se avevano intenzione di bocciarci ogni proposta indipendentemente dal merito, potevano dircelo subito ed avremmo risparmiato tempo. Al che, Massimo Polledri – il deputato leghista di cui sopra – mi ha risposto che del tema non capisco nulla, visto che vengo dai telequiz, e che probabilmente avevo nostalgia di ritornarci. Diversi esponenti della maggioranza (e pure il rappresentante del governo) sono venuti a chiedermi scusa, anche se non c’entravano nulla, ma io l’ho presa ironicamente: il giorno dopo, ho fatto arrivare in Aula a Polledri il mio curriculum, con un biglietto in cui gli chiedevo scusa per non averlo aggiornato con i telequiz.

Secondo atto. Ieri vi ho parlato del caso rom, in seguito al quale la comunità di Sant’Egidio ha abbandonato il tavolo con il Comune di Roma. In un comunicato stampa, lo definivo “un’operazione a casaccio”, che – citavo testualmente le critiche di Sant’Egidio – mandava all’aria anni di piccoli e grandi passi verso l’integrazione. E qui si è mobilitato Domenico Gramazio, senatore Pdl: Sarubbi, “volto televisivo prestato alla politica”, è “convinto di fare televisione e di essere il protagonista di una fiction”, mentre “parla di cose che non conosce”.

Riassumendo: non ci capisco niente di testamento biologico, perché vengo dalla tv, e non ci capisco niente neppure di nomadi, perché vengo dalla tv. Ma non è ancora finita.

Terzo atto. Come sapete, sono vegetariano. E per questo motivo sono stato tirato in ballo in un articolo del teocon Camillo Langone (quello che sul Foglio dà le pagelle alle Messe, e che in un libro cercava di convincere le ragazze sulla necessità di predicare bene e razzolare male) dal titolo significativo: “Com’è buono il cavallo”. Il passaggio che mi riguarda merita di essere citato per intero:

“Il democratico Andrea Sarubbi è uno dei pochissimi ministri del dio Equus non provenienti dal centro-destra. È un piacevole e pettinatissimo esemplare di clericale romano, allievo dei gesuiti che non sono riusciti a ficcargli in testa il Vangelo ma che gli hanno concesso il patentino di cattolico innocuo, indispensabile per entrare prima a Radio Vaticana e poi a Raiuno dove ha condotto la rubrica A sua immagine, una trasmissione che non ha mai convertito nessuno, l’equivalente televisivo di un brodo fatto col dado. A forza di andare in onda Sarubbi ha perso quel poco di fede, e adesso anziché credere in san Paolo caduto da cavallo crede nel cavallo”.

Tre indizi, dicevo, fanno una prova: la prova, probabilmente, che sto cominciando a dare fastidio.

Burattino senza fili

Non so cosa voglia dire l’aggettivo ruiniano, ma credo che il primo a dolersene sarebbe il cardinale Ruini, se leggesse l’articolo che Italia oggi ha scritto su di me. Intanto, perché c’è una ricostruzione della mia candidatura che è esattamente l’opposto di come sono andate le cose: non solo il cardinale Ruini non ha mai caldeggiato la mia messa in lista, ma credo che – se avesse potuto – mi avrebbe pure legato ad una sedia per impedirmelo, perché ad un anno e mezzo di distanza posso raccontare tranquillamente che la mia candidatura nel Pd provocò più di un imbarazzo alla Chiesa cattolica italiana. Un imbarazzo comprensibilissimo, devo riconoscerlo: ero il volto di A sua immagine, la trasmissione cattolica di Raiuno prodotta in convenzione con la Cei, e c’erano tanti altri credenti candidabili, magari più “organici” di me e decisamente meno “chiassosi” da un punto di vista mediatico. Ma io ero determinato ad accettare la proposta di Francesco Rutelli (avallata da Walter Veltroni) e dalla Cei non ricevetti nessuna telefonata per sconsigliarmelo, a testimonianza – se mai ce ne fosse bisogno – che questa vulgata dei burattini cattolici tirati per i fili dai vescovi non corrisponde al vero. Il secondo errore sta nell’espressione “di successo” (sono sempre un peón, come mi ha ricordato il ministro La Russa), ma la prendo come un augurio e me la tengo stretta. Leggetevi l’articolo di Franco Adriano e poi, se volete, commentate.

C’è un ruiniano di successo nel Pd
Su ispirazione del presidente Cei e tramite Rutelli era passato da Rai1 alla Camera
Sarubbi non sembra scontare il peccato di origine come la Binetti

Sarà per ragioni di età o per il suo appeal da conduttore televisivo («A sua immagine», Rai1) decisamente superiore a quello di Paola Binetti. Ma nel Pd c’è un seguace del cardinale Camillo Ruini che non sconta il peccato di origine, ma che anzi ha un gran successo nel partito. Si chiama Andrea Sarubbi. È deputato come la Binetti grazie all’ispirazione dell’ex presidente della Cei e il tramite di Francesco Rutelli. E sta imparando a muoversi bene in politica. Gli sono di certo serviti il liceo classico dai gesuiti, una tesi sul paragone tra la Lega nord ed il Fronte dell’Uomo qualunque («pubblicata mi ha fatto vincere un premio letterario»), i passaggi in radio Vaticana e in Rai. Solo Rosy Bindi sembra non dimenticare da dove proviene e non gliene passa una. L’altro giorno, quando ha organizzato un pranzo vegetariano a Montecitorio per sostenere il suo progetto di legge: «Norme per la tutela delle scelte alimentari vegetariana e vegana», l’esperimento è andato molto bene. «Al di là di qualche sfottò», ha confessato sul suo blog, «dei carnivori più accaniti (Rosy Bindi in testa)». Che deve esserselo sbranato. Tuttavia, lui appare più abile della Binetti a non cadere nelle trappole politiche che continuano a essere tese a quelli come lui. Sì, sull’omofobia si è smarcato dall’esponente appartenente all’Opus Dei sul voto in aula, ma un secondo dopo si è lanciato in sua difesa. Ancora dal suo blog. «Nonostante la nostra amicizia», si legge, «Paola Binetti non mi cita tra i parlamentari a lei più vicini (in una intervista al Corriere della Sera ndr), e so benissimo che non si tratta di una scortesia: il voto sull’omofobia, tanto per fare un esempio, ha mostrato che, su alcuni temi, tanto vicini non siamo». Una scelta opportunistica del tipo: la Binetti affonda ed è utile non affondare con lei? Forse anche. Ma Sarubbi non esita a pigliarsela con tutti e tre i candidati segretari del Pd: «Nel giro di pochi minuti, Paola Binetti è diventata un’arma congressuale da puntare contro la mozione avversaria» ha rilevato Sarubbi, «attacchi a Franceschini da Marino e Bersani, Dario non vuole la patata bollente e minaccia l’espulsione, lei dice che allora voterà Bersani ed improvvisamente i franceschiniani si ringalluzziscono, mentre i bersaniani usano toni più concilianti e Marino continua a picchiare. Ma siamo scemi, signori miei»? Il nuovo prototipo del ruiniano nel Pd, dunque, appare più conciliante, ma non lo è. E tra un ex comunista, un ex democristiano e un laico estremo, non ci sono dubbi. Basta leggere la riflessione di Sarubbi dopo il confronto dei tre candidati segretari, ieri, su Youdem tv. «Se avessi avuto qualche dubbio su chi votare alle primarie», ha scritto ieri sera, «la diretta di oggi su Youdem me lo avrebbe tolto dopo un quarto d’ora: il tempo di sentire Bersani prendere a calci l’articolo 67 della Costituzione, in nome della disciplina di partito, e Marino ripetere la famigerata frase del Lingotto sul «chi non si sente laico dentro può anche fermarsi un giro e stare a casa». Mai come oggi, ho avuto chiaro che la mia scelta per Dario Franceschini è anche un atto di legittima difesa: chiunque vincesse degli altri due, infatti, mi toglierebbe il diritto di votare (come ho fatto e rifarei) contro il mutuo ventennale da 4 miliardi di euro per Gheddafi, o di astenermi (come ho fatto e continuerò a fare) sulle missioni internazionali fino a quando non aumenteranno i fondi per la cooperazione, o di dissentire dalla maggioranza del partito (come non ho ancora fatto ma potrei fare) su alcune delicatissime questioni etiche».

Annotazione a margine: avete visto quante citazioni dal blog? Vuoi vedere che, piano piano, tutta questa faticaccia comincia a dare frutto?

La cena è servita

Tempo fa, prima ancora dei cambiamenti nei vertici Rai, denunciavo quello che secondo me è il principale difetto dell’informazione italiana: l’incapacità, nella stragrande maggioranza dei casi, di far sentire entrambe le campane. Ne viene fuori – scrivevo, e chiedo perdono per l’autocitazione – un’informazione à la carte, in cui ognuno sceglie in anticipo cosa vuole sentirsi dire ed in base a questo schiaccia il bottone del telecomando. Ribadito che, da ex giornalista, la cosa mi piace ben poco, sia quando si beatifica il premier che quando lo si critica a priori, non posso tacere di fronte alla scelta della Rai di far saltare la prima puntata di Ballarò – ormai pronta e dedicata in buona parte alla ricostruzione in Abruzzo – per uno speciale di Porta a porta sulla consegna delle prime villette ai terremotati. In questo caso, se posso continuare la mia metafora, è stata direttamente la Rai a decidere il menù: domani sera si mangia propaganda, stop. Non che Giovanni Floris sia un anarchico bombarolo, ma probabilmente qualche domanda scomoda l’avrebbe fatta. Avrebbe ricordato – come ha fatto oggi la presidente della Provincia dell’Aquila, Stefania Pezzopane – che le 200 villette pronte per la consegna non sono quelle del Progetto case, ma quelle realizzate dalla Provincia di Trento (governata, guarda un po’, dal Centrosinistra). Avrebbe parlato delle 30 mila persone parcheggiate sulla costa adriatica e delle 16 mila ancora in tenda. Avrebbe chiesto come mai le case che verranno consegnate ad Onna non siano le palazzine dove sono state messe le bandierine, ed avrebbe cercato di capire come mai gli abitanti di quel paese ormai distrutto abbiano costituito delle onlus per difendere i propri diritti. Ho grandissimo rispetto per Bruno Vespa, fin da quando facevo indegnamente il suo mestiere: ne ho sempre apprezzato l’enorme cultura, le grandi doti di divulgatore, l’abilità di condurre una trasmissione televisiva senza un copione in mano, la capacità di cambiare registro a seconda delle circostanze. Ma temo, purtroppo, che non sentiremo mai domande scomode in una liturgia come quella di domani sera, dove tutto è stato concepito per non disturbare il conducente. E ripenso ai contratti di Annozero (anche se la polemica sulle troupe di Euroscena mi pare una fesseria), alla mancata copertura legale di Report, alle nubi che ancora oggi avvolgono Che tempo che fa. Non vorrei dovermi preoccupare pure per A sua immagine, vista la fine che ha fatto il direttore di Avvenire.

Il presidente paragnosta

Non so Berlusconi, ma io con i rifugiati ho lavorato a lungo. Ho cominciato come volontario a 17 anni, verso la fine degli anni Ottanta, mentre lui era impegnato a discutere con Craxi di cose più importanti: lui dormiva all’Hotel Rafael, io passavo una notte a settimana nel dormitorio di San Saba, che ospitava una sessantina di richiedenti asilo. Erano per lo più del Corno d’Africa, all’epoca, ma poi – con l’inizio degli anni Novanta – arrivarono a frotte dai Balcani. Facevo volontariato al Centro Astalli, dove poi ho svolto anche il servizio civile, al termine del quale ho continuato a collaborare con il Jesuit Refugee Service, occupandomi della traduzione di un bollettino che metteva insieme notizie dai campi profughi e dalle frontiere calde di tutto il mondo. Poi, tra Radio Vaticana ed “A sua immagine”, sono tornato ad affrontare il tema decine di volte, sia con l’Acnur che con il Cir. Sono un esperto della materia? Non direi. Ma una cosa, una cosa sola, ho capito in tutti questi anni: che lo screening dei rifugiati non si può fare ad occhio nudo, perché dietro ogni persona c’è una storia complicatissima e, talora, il confine tra la persecuzione politica ed i motivi umanitari è molto sottile. Penso al mio amico Leonardo, che faceva il funzionario in un ministero dell’Angola ed era militante nel partito di opposizione: scappò ai tempi della guerra, lasciando moglie e bimbo piccolo, ma a causa della mancanza di alcuni documenti la Commissione non gli riconobbe mai lo status di rifugiato politico. Eppure, riuscì a restare in Italia perché gli venne rilasciato – come spesso capita, e forse Berlusconi lo dimentica – un permesso di soggiorno per motivi umanitari, perché si riconobbe che il rientro nel suo Paese di origine sarebbe stato pericoloso. Così, a prima vista, io non ho ancora imparato a distinguere un possibile rifugiato da un immigrato comune e mi domando come possa un presidente del Consiglio – a meno che non si tratti di un presidente paragnosta, naturalmente – essere così superficiale, affermando che nei barconi respinti non c’è nessun rifugiato vero. “Sono portati in Italia dalla tratta”, dice Berlusconi, e probabilmente ha ragione: ma come pensa che arrivino qui i cosiddetti “rifugiati veri”? Con un volo di linea? “Le statistiche mi danno ragione”, continua. Ma quali statistiche? Quelle del Tavolo asilo – cartello che comprende associazioni e ong italiane attive in questo settore – sostengono l’esatto contrario: e cioè che, nel caso di sbarchi, una persona su due è un richiedente asilo politico. E nessuna chiacchiera da bar, neppure se  il bar è quello di Palazzo Chigi, può ignorare che la richiesta di asilo di per sé pone l’immigrato su un altro piano: la tua permanenza sul territorio italiano non ha nulla a che fare con studio e lavoro (anzi, per i primi 6 mesi non ti è proprio concesso di lavorare) ed è legata all’accertamento di alcuni requisiti. Che forse avrai e forse no, ma nel frattempo sei protetto. E torniamo allora alle statistiche: è vero che nel 2007 soltanto il 10,42% dei richiedenti ha visto riconosciuto lo status di rifugiato, ma un altro 46,77% ha avuto il permesso di soggiorno per motivi umanitari, come il mio amico Leonardo. La somma fa 57,19%: in tutto, oltre la metà dei richiedenti asilo non viene rimandata a casa, perché non potrebbe tornarci senza correre rischi per la propria stessa vita. È di pochi minuti fa (la sto leggendo proprio ora) la notizia che l’Acnur ha scritto al governo italiano per protestare contro i nostri respingimenti, trattandosi di “individui che cercano protezione internazionale”. Bisognerebbe regalare un paragnosta anche all’Onu, oppure mandarci il nostro, se se lo pigliano.