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La vita a punti

Siccome voglio essere propositivo, comincio dai lati buoni. Come se in Italia non governasse la Lega e come se non fossimo in campagna elettorale per le Regionali.  Sono talmente propositivo, guarda un po’, che li prendo sul serio: questa idea del permesso di soggiorno a punti, annunciata in pompa magna da Maroni e Sacconi, potrebbe anche essere un tentativo di avviare gli immigrati verso un percorso di integrazione. Di fare in modo, cioè, che lo straniero non rimanga un corpo estraneo alla comunità che lo ospita. I lati buoni, purtroppo, sono finiti, ma ci tenevo ad evidenziarli subito perché la mia non sembri una critica ideologica: l’idea di un percorso non è sbagliata in sé, ma anzi chiama lo Stato ad assumersi le proprie responsabilità nei confronti di chi viene qui. Ad accoglierlo, insomma, e ad accompagnarlo nei primi due (o tre, perché alla fine leggendo tra le righe si capisce che sono tre) anni di permanenza nel nostro Paese. Meglio così che lasciarli da soli, direte voi, per evitare il rischio che finiscano in una delle tante Rosarno d’Italia, tra i cinesi invisibili di Prato o in mezzo ai manovali della camorra nel casertano. Il decreto – c’è un ottimo riassunto di Fiorenza Sarzanini sul Corriere di oggi – condiziona il rinnovo del permesso di soggiorno ad una serie di requisiti: un contratto di lavoro e di affitto (o una casa di proprietà), la conoscenza dell’italiano, dei principi fondamentali della Costituzione, dell’organizzazione e del funzionamento delle istituzioni, della vita civile in Italia (con particolare riferimento ai settori della sanità, della scuola, dei servizi sociali, del lavoro e degli obblighi fiscali), l’iscrizione dei propri figli minori alla scuola dell’obbligo. Potreste obiettare che molti italiani non hanno tutti questi requisiti, ma voglio ancora dar credito al governo e non scandalizzarmi per la scelta di un’immigrazione selezionata: come nota il nostro Massimo Livi Bacci in un documento di cui vi parlerò presto, anche oggi esiste nei fatti una selezione, legata però a “quote di provenienza geografica che poco hanno a che vedere con la disponibilità all’inclusione dell’immigrato”. Però lo stesso Livi Bacci – che non ha l’anello al naso – aggiunge che una politica selettiva ha senso solo se viene affiancata da “un robusto impegno in programmi di ammissione di immigrati richiedenti asilo o bisognosi di protezione umanitaria”: è giusto esigere da chi può dare, insomma, mentre la politica della faccia feroce verso tutti (barconi compresi) non è degna di un Paese civile. L’anello al naso non ce l’ho neppure io, e così non posso fare a meno di notare che questa storia del permesso a punti fa acqua da parecchie parti. Come si pensa di risolvere la storia dei contratti di locazione, ad esempio? Il problema attuale non è che gli immigrati non paghino l’affitto, ma che gli italiani – quei pochi disponibili ad affittare casa agli immigrati – non registrino il contratto: se vogliamo risolverlo, dobbiamo innanzitutto prevedere controlli più seri e poi magari introdurre la cedolare secca, per evitare che le case restino sfitte. Come si pensa di insegnare a tutti gli immigrati la lingua e le nozioni fondamentali della vita civile in Italia? Il problema attuale – giustamente sottolineato da Livia Turco – è che finora l’intero sistema poggia sulla buona volontà della Chiesa e del volontariato: quel poco che lo Stato ci metteva, attraverso il fondo di inclusione sociale, ora non ce lo mette più, perché Tremonti lo ha azzerato. Prima di avviare il permesso a punti, dunque, sarà necessario preparare una rete di scuole per immigrati (che chiaramente non sono a costo zero), cercando tra l’altro di fissare un programma di lezioni compatibile con il loro orario lavorativo (se sei qui per fare la badante, probabilmente puoi solo di domenica…). Come si pensa di riuscire a legare saldamente la presenza in Italia con un lavoro regolare? Il problema attuale è che – anche su questo fronte – sono gli italiani i primi a fornire lavoro solo in nero, e dunque sono necessari più controlli (e magari meno tasse sul lavoro dipendente, per favorire l’emersione). Ma c’è di più: come si pretende di riformare la disciplina del soggiorno, se non si prevedono insieme nuovi criteri per gli ingressi? Vogliamo che resti sul nostro territorio solo chi ha un lavoro? Bene: mettiamo mano alla Bossi-Fini ed introduciamo la possibilità di ingresso per ricerca di lavoro, tramite una garanzia economica o tramite uno sponsor familiare, in modo che chi viene qui (visto che vogliamo selezionarli noi) abbia la possibilità di dimostrare ciò che vale senza doversi nascondere in un bagagliaio per oltrepassare la frontiera. Vogliamo che gli immigrati si sentano sempre più parte della nostra comunità? Bene: abbiamo il coraggio, come chiedono da tempo alcuni peones, di mettere mano alla riforma della cittadinanza, perché chi decide di stabilirsi qui riesca a vedere la luce in fondo al tunnel, dopo una vita passata ad accumulare punti.

Lutto nazionale

foto Ansa

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Nel giorno del lutto nazionale per le vittime di Messina, la cosa più utile che possa fare un deputato è raccontarvi quanto ha sentito con le sue orecchie alla Camera, questa settimana, dal sottosegretario Guido Bertolaso: un uomo che normalmente si distingue per la prudenza delle dichiarazioni, ma che stavolta c’è andato giù pesante. La Protezione civile aveva lanciato l’allarme il 23 settembre, prima ancora dell’arrivo della perturbazione: con una circolare inviata a prefetture e Regioni interessate (“Un fatto accaduto tre volte nell’arco dei miei otto anni di direzione della Protezione civile”, ha rimarcato il sottosegretario), si metteva in guardia dal rischio e si davano indicazioni operative specifiche. Passò una settimana e – dopo altre due sollecitazioni, con altrettanti bollettini meteo – la Regione Sicilia emanò una direttiva, “indirizzando ai sindaci lo stato di pre-allerta”. Non si sapeva esattamente cosa sarebbe successo, perché nessuno aveva previsto la portata dell’alluvione, ma era chiarissimo che la situazione sarebbe stata critica. Ufficialmente, le strutture locali sono tenute alla “vigilanza” ed al “presidio territoriale”: due compiti abbastanza generici per i non addetti ai lavori, ma lo stesso Guido Bertolaso ha tenuto a sottolineare che questa terminologia “deve essere estremamente conosciuta a coloro i quali hanno responsabilità di protezione civile, dal capo del dipartimento nazionale sino al sindaco del Comune più piccolo del nostro Paese”. A parziale discolpa dei soggetti interessati, c’è da dire – e Bertolaso lo ha detto – che un’intensità media del genere non si registrava da due secoli, e nei momenti di massima pioggia non c’era stato nulla di simile nell’ultima metà di millennio; è altrettanto vero, però, che l’area in questione era in stato di emergenza da due anni e che la messa in sicurezza (non so se sia questo il termine tecnico, ma ci siamo capiti) era ben lontana. Anche qui ci sarebbe da aprire un capitolo, stavolta di natura finanziaria: a fronte dei 144 milioni di euro di danni stimati, in questi due anni ne erano stati stanziati e spesi soltanto 7, ossia meno di un ventesimo; ora che 28 persone (o 36, dipende dai dispersi) sono morte, invece, dalle tasche dello Stato e della Regione Sicilia ne sono usciti improvvisamente 40, e se qualcuno di voi ha una risposta plausibile per favore me la dia. Ma la domanda più profonda riguarda il nostro modo di percepire l’ambiente, che da parte della nostra società (e non parlo solo di classe politica nazionale, ma anche di amministratori locali e di comuni cittadini) viene visto come un intralcio. Su questo, Bertolaso è stato chiarissimo:

GUIDO BERTOLASO. Sappiamo da sempre che l’Italia vanta il record dei rischi naturali, ne abbiamo parlato tantissime volte in questa e nella precedente legislature, in particolare nelle competenti Commissioni. Rischi che vanno da quello vulcanico a quello sismico, dal dissesto idrogeologico a quello degli incendi boschivi, ma sappiamo che tali rischi sono stati spesso sottovalutati e vissuti come un ostacolo, in qualche modo ingiusto, allo sviluppo delle città, delle aree industriali, delle infrastrutture, e soprattutto alle attività di costruzione di nuovi insediamenti. (…) Abbiamo visto, invece, in questi giorni alcuni (anche tra chi è chiamato a ricoprire incarichi istituzionali) manifestare una sorta di insofferenza e contrarietà nei confronti di chi ricorda che la buona manutenzione nel nostro Paese non è stata una priorità; non lo è stata per l’uno o per l’altro Governo, per questa o per un’altra maggioranza: non lo è stata semplicemente per tutti. Si è costruito, siamo cresciuti, si è agito secondo le logiche di una cultura della crescita e dello sviluppo che non ha preso in seria considerazione la reazione della natura, la nostra pretesa di una sua ipotetica indifferenza.

L’esempio ultimo di questo atteggiamento è la prima versione del piano casa: quella in cui il presidente del Consiglio delegava il rispetto dell’ambiente al senso estetico degli italiani. La lettera del Fai e del Wwf sul Corriere della Sera di oggi è l’ennesimo appello a cambiare rotta, possibilmente prima di un altro lutto nazionale.

Casa, dolce casa

L’articolo 42 del ddl sicurezza è un capolavoro di superficialità. Roba da citare nelle scuole, come esempio di come non si affronta un problema. Il problema in questione è il fatto che gli immigrati vivano in case fatiscenti, spesso al limite dell’abitabilità, nelle periferie delle grandi città; la soluzione proposta è quella di negare loro la residenza. L’iscrizione anagrafica non è possibile, stabilisce il disegno di legge, in mancanza “di un alloggio conforme ai requisiti igienico-sanitari, nonché di idoneità abitativa, accertati dai competenti uffici comunali”. Premesso che, come ha notato l’Anci, si tratta di adempimenti non sostenibili per le amministrazioni comunali (a Roma, per dire, ci vuole già un anno e mezzo per il certificato igienico-sanitario e l’abitabilità delle case nuove), la norma metterebbe nei guai 2 milioni di famiglie italiane: dai bassi di Napoli ai carrugi di Genova, da Librino (Catania) a Porta Palazzo (Torino), e potremmo andare avanti a lungo. La residenza, lo ricordo, è un requisito fondamentale per avere documenti, ricevere la pensione, richiedere una casa popolare, firmare un contratto di affitto, aprire un conto corrente bancario, iscriversi alle liste di collocamento, aprire una partita Iva. Non averne una, ricorda la Comunità di Sant’Egidio nel dossier consegnato alla Commissione, significa diventare invisibili e dunque non rintracciabili, “con conseguenti problemi sociali ed anche di ordine pubblico: basti pensare che la residenza è il presupposto anche per il sostegno pubblico alle famiglie in difficoltà, la notifica degli atti legali, il controllo sulla scolarizzazione dei minori, la programmazione dei servizi sociosanitari, non essendo possibile ad un italiano privo di residenza l’iscrizione al servizio sanitario nazionale”. Finito qui? No: c’è un’altra norma analoga, una sorta di variazione sul tema, che non leggerete mai sui giornali perché riguarda coloro che non fanno mai notizia. Per i senza fissa dimora – stabilisce l’articolo 50 del ddl sicurezza – non vale più l’autocertificazione, ma la loro residenza viene fissata nel Comune di nascita, a meno che non riescano a dimostrare di avere un alloggio altrove: il che, parlando appunto di clochard, appare quantomeno improbabile. Vi risparmio stavolta la citazione testuale delle associazioni cattoliche e della Fio.psd, la Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora, il cui contenuto è facilmente immaginabile: un articolo del genere pone problemi di previdenza, inclusione sociale, assistenza e cura. Ma una domanda, a questo punto, la faccio io: da quando in qua i poveri senzatetto sono diventati una minaccia alla convivenza pacifica in Italia, tanto da meritarsi un posto nel ddl sicurezza?

Il barbiere e la polmonite

“Quando uno ha la polmonite, non va dal barbiere a tagliarsi i capelli”. L’autore del virgolettato è il nostro beneamato Silvio, la polmonite è la crisi economica mondiale ed il taglio di capelli è l’ambiente. Fuori di metafora, sostiene il capo del governo italiano, l’attenzione all’ambiente non è un’urgenza, soprattutto in un momento come quello attuale. La citazione è di dicembre, quando la terra abruzzese ancora non tremava, e non credo che oggi Berlusconi la ripeterebbe con altrettanta leggerezza. Ma il problema non è tanto la frase in sé, che possiamo facilmente archiviare nel reparto fesserie, quanto il pensiero retrostante, condiviso da una buona parte degli italiani: l’attenzione all’ambiente viene spesso percepita come un freno (evitabilissimo e fastidioso) all’economia. Bush junior, per dire, motivò l’uscita degli Usa dal protocollo di Kyoto dicendo che, se Washington ne avesse accettato le limitazioni, l’industria automobilistica americana sarebbe fallita. Ora che è fallita davvero, la Chrysler si trova a bussare alla porta della Fiat, che nel frattempo sta vendendo decine di migliaia di Panda e Punto a gpl. Ne parlo oggi perché stamattina, a Palazzo San Macuto, ho partecipato ad un convegno del Centro per un futuro sostenibile, organizzato da Francesco Rutelli: un confronto piuttosto schietto sulle politiche ambientali, insieme agli esperti del settore. Il presidente dell’Enea, Luigi Paganetto, ha rivelato i dati di uno studio sugli edifici pubblici italiani: dalle scuole agli ospedali, dai tribunali alle caserme, hanno il record dello spreco energetico. Ristrutturandone 15 mila, si creerebbero tra i 120 ed i 150 mila posti di lavoro; gli 8 miliardi di euro spesi verrebbero ripagati in 19 anni dai risparmi nei consumi (mezzo milione di tonnellate di petrolio in meno, tanto per dirne una): un investimento ventennale che parecchie banche sarebbero disponibili a finanziare. Ma il discorso vale pure per le abitazioni private, visto che 7 su 10 risalgono a prima del 1971 ed alcune di loro (quelle costruite fra il 1945 ed il 1952, nell’immediato dopoguerra) presentano seri problemi di agibilità: si è tornati dunque a parlare del decreto per l’edilizia (proposto dal governo e modificato dalle Regioni), senza pregiudizi ideologici ma con serietà. E lo stesso presidente dei costruttori italiani, Paolo Buzzetti, ha ammesso che i controlli sono troppo pochi: mentre per aprire un ristorante devo superare esami severi alla Camera di commercio, per avviare un’impresa edile mi basta fare le pratiche e pagare la quota. C’è poi un ulteriore aspetto – non se ne è parlato stamattina, ma l’ho sentito venerdì a Castellammare di Stabia, in un dibattito con l’ex ministro Edo Ronchi – che riguarda il risparmio energetico: nel 2008 la richiesta di pannelli solari in Italia è quadruplicata, ma non ci sono abbastanza imprese capaci di produrli, dunque li importiamo da Francia e Germania. Quella stessa Germania in cui, lo dico per la cronaca, il numero di occupati nell’industria delle fonti rinnovabili ha superato quello dei dipendenti del settore automobilistica. Mi resta da riferirvi di Franco Frattini, che ha chiuso il convegno di stamattina parlando delle iniziative sull’ambiente nel prossimo G8: confermata la sessione parallela chiesta da Obama, alla quale parteciperanno 17 Paesi, responsabili dell’80 per cento delle emissioni; l’Italia chiederà inoltre agli altri membri del G8 di assumere impegni vincolanti sulla riduzione delle emissioni di CO2 attraverso l’innovazione, il risparmio energetico e l’uso delle energie rinnovabili. Frattini ha insistito su un punto chiave: quello che faremo o non faremo in materia di ambiente, ha detto, riguarderà il futuro dei nostri figli. Ma su quale pista era impegnato a sciare il nostro ministro degli Esteri quando i suoi colleghi di governo approvavano il decreto sulla costruzione di 4 centrali nucleari in Italia?

L’esteta

Nella squadra c’erano già Mara Carfagna e Stefania Prestigiacomo. Ora si aggiunge Michela Vittoria Brambilla, anche se fisicamente non è il mio tipo, perché pare che tra un mese diventi ministro pure lei: la motivazione, strettamente politica, l’ha spiegata stamattina Berlusconi alla Confcommercio (“La signora Brambilla è un’ira di Dio, non molla l’osso”). Il senso estetico, lo abbiamo sempre saputo, è una qualità di cui il presidente del Consiglio va particolarmente fiero. Per le donne, certo, ma non solo: il nostro è uomo di mondo e non dimentica dunque l’arte classica, come testimonia l’anfiteatro finto-greco da 400 posti fatto costruire a Villa Certosa, in mezzo al finto nuraghe e al finto menhir. Tutto finto, insomma, come le statue in vetroresina fatte preparare per il meeting di Pratica di mare, nel 2002, ed “abbellite” – lo ricorda Filippo Ceccarelli su Repubblica di oggi – con dei mazzi di fiori, “per ingentilire l’atmosfera”. Da un po’ di tempo, però, Berlusconi non si accontenta più dei falsi d’autore e punta direttamente sull’originale: ha prenotato i bronzi di Riace per il G8, ha fatto arrivare a Palazzo Chigi un busto di Nerone, ha portato via dalle Terme di Diocleziano due statue per il suo ufficio ed un gruppo marmoreo di due metri da mettere in cima allo scalone. Alla nostra interrogazione parlamentare – che è finita sui giornali tra le notizie di colore, mentre noi ponevamo seriamente il problema della fruibilità delle opere d’arte, visto che abbiamo capolavori ammassati nei magazzini perché mancano i soldi per restaurarli o per esporli al pubblico – il presidente del Consiglio oggi ha risposto che dobbiamo prendercela con l’architetto di Palazzo Chigi, “che si era ricordato di un mio apprezzamento”. Ma la frase di Berlusconi che mi ha colpito di più, sempre in tema di senso estetico, non riguarda le belle donne né l’arte, bensì il piano casa, che verrà presentato venerdì in Consiglio dei ministri. A chi avanzava dubbi sull’imbarbarimento del nostro paesaggio, il Cavaliere stamattina ha risposto che non ce n’è motivo. Perché i controlli saranno a tappeto? No. Perché i piani regolatori vigenti rappresentano dei muri invalicabili, come sostengono le Regioni governate dal Centrosinistra? Macché. Perché il governo stesso metterà dei limiti chiari, circoscrivendo le modalità di ristrutturazione edilizia? Acqua, figliuoli, acqua. Perché, allora, non dobbiamo aver paura della cementificazione del paesaggio, noi che vogliamo così bene alle bellezze dell’Italia? “Perché ho molta fiducia nel senso estetico degli italiani”, ha detto il premier, che in materia di abusivismo edilizio e violazione delle leggi ambientali è un esperto: proprio per Villa Certosa ha ricevuto 13 capi di accusa, uscendo indenne dai processi solo perché, nel frattempo, le sue opere abusive erano state condonate e qualche mano amica aveva variato le concessioni.