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Il sicario distratto

A questo punto, signori miei, Vittorio Feltri si dimetta . Per un sussulto di dignità, mi verrebbe da dire, ma ancor più per inadeguatezza professionale: il direttore di un giornale non è il barista che discute con i suoi avventori del più e del meno. Ha una responsabilità – anche penale – di ciò che pubblica, e per questo deve resistere alla tentazione di abboccare alle note anonime, verificando le carte processuali prima di sparare in prima pagina una fatwa contro chicchessia. Anche se chicchessia, in quel momento, gli è scomodo, e più ancora che a lui è scomodo al suo datore di lavoro. Dino Boffo, ammette oggi il suo killer, era innocente. Era uno schèrzo, come dice Corrado Guzzanti quando imita Bertinotti. Ma Feltri, anziché lasciare il giornalismo e dedicarsi a tempo pieno alla propaganda (sai che coppia con Capezzone?), fischietta ed invita a non pensarci più. Ecco la sua risposta ad una lettrice, che gli chiede un giudizio a freddo su quella vicenda:

Gentile signora,
quando abbiamo pubblicato la notizia, per altro non nuova (era già stata divulgata da Panorama sia pure con scarsa evidenza) eravamo consapevoli che non sarebbe passata inosservata. Ma non per il contenuto in sé, penalmente modesto, quanto per il risvolto politico. Infatti era un periodo di fuochi d’artificio sui presunti eccessi amorosi di Berlusconi. La Repubblica in particolare si era segnalata con servizi quotidiani su escort e pettegolezzi da camera da letto. Il cosiddetto dibattito politico aveva lasciato il posto al gossip usato come arma contro il premier anche in tivù, oltre che sulla stampa nazionale e internazionale.
Persino l’Avvenire, di solito pacato e riflessivo, cedette alla tentazione di lanciare un paio di petardi. Niente di eccezionale, per carità; data però la provenienza, quei petardi produssero un effetto sonoro rilevante. Nonostante ciò, personalmente non mi sarei occupato di Dino Boffo, giornalista prestigioso e apprezzato, se non mi fosse stata consegnata da un informatore attendibile, direi insospettabile, la fotocopia del casellario giudiziale che recava la condanna del direttore a una contravvenzione per molestie telefoniche. Insieme, un secondo documento (una nota) che riassumeva le motivazioni della condanna. La ricostruzione dei fatti descritti nella nota, oggi posso dire, non corrisponde al contenuto degli atti processuali.
All’epoca giudicammo interessante il caso per cercare di dimostrare che tutti noi faremmo meglio a non speculare sul privato degli altri, perché anche il nostro, se scandagliato, non risulta mai perfetto.
Poteva finire qui. Invece l’indomani è scoppiato un pandemonio perché i giornali e le televisioni si scatenarono sollevando un polverone ingiustificato. La «cosa», come lei dice, da piccola è così diventata grande. Ma, forse, sarebbe rimasta piccina se Boffo, nel mezzo delle polemiche (facile a dirsi, adesso), invece di segretare il fascicolo, lo avesse reso pubblico, consentendo di verificare attraverso le carte che si trattava di una bagattella e non di uno scandalo. Infatti, da quelle carte, Dino Boffo non risulta implicato in vicende omosessuali, tantomeno si parla di omosessuale attenzionato.
Questa è la verità. Oggi Boffo sarebbe ancora al vertice di Avvenire. Inoltre Boffo ha saputo aspettare, nonostante tutto quello che è stato detto e scritto, tenendo un atteggiamento sobrio e dignitoso che non può che suscitare ammirazione.

Dopo aver sparato, colpito ed affondato, insomma, il sicario si accorge di aver fatto fuori un innocente. Ed è lo stesso sicario che, in altre circostanze, inneggia invece al garantismo: nel Giornale di oggi, tanto per citare l’ultimo caso, c’è tutto un dossier dettagliato per smontare le dichiarazioni del pentito Spatuzza, sottolineandone i lapsus, gli errori e le omissioni. E si tratta, in questo caso, di atti processuali, non di una nota anonima. Ma diverso è il bersaglio, evidentemente, e dunque diversi sono pesi e misure. Leggo su Avvenire di oggi una risposta fin troppo diplomatica e pacata: in un passaggio il nuovo direttore, Marco Tarquinio, arriva addirittura a riconoscere a Feltri una certa dose di fegato, per aver saputo ammettere il proprio errore. No, caro direttore: il caso non è chiuso per niente, e non lo sarà fino a quando Feltri resterà dov’è. Se Il Giornale avesse bisogno di un sostituto, tra l’altro, c’è un ottimo direttore a spasso da tre mesi per colpa di un sicario un po’ distratto.

Colpo di scena

Vi aggiorno sulla cittadinanza, perché ci sono delle novità importanti, e comincio dalla fine: subito dopo la Finanziaria, la legge arriva in Aula alla Camera. Il che significherà, probabilmente, iniziare la discussione poco prima di Natale e cominciare le votazioni degli emendamenti a gennaio. Su quale testo ancora non si sa, perché nel comitato ristretto della I Commissione i lavori non sono ancora finiti e forse neppure finiranno in tempo: se così fosse, se ne discuterà direttamente in Aula e per me sarebbe anche meglio, visto che – non essendo membro della Commissione Affari Costituzionali – non posso partecipare ai lavori del comitato ristretto. Mentre mi ero ormai rassegnato allo slittamento post-Regionali, Dario Franceschini si è impuntato durante la conferenza dei capigruppo ed ha chiesto che il provvedimento venisse calendarizzato subito; a quel punto, Pdl e Lega hanno tentato di opporsi, dicendo appunto che la Commissione non aveva ancora concluso i lavori, ma Dario ha insistito sul diritto di chiedere la calendarizzazione nella quota riservata alla minoranza e si è rivolto al presidente della Camera. Ce lo vedete Fini che, dopo tutto il casino armato in questi mesi sulla cittadinanza, si prende addirittura la responsabilità di non farla arrivare in Aula, quando l’opposizione lo ha chiesto? No, non ce lo vedete: infatti, Fini ha acconsentito, spiegando che il presidente della Camera non ha il potere di interferire nelle scelte della minoranza rispetto alle sue quote. Si comincia, insomma, e per me saranno settimane infinite: ho intenzione di seguire tutta la discussione generale, dal primo all’ultimo intervento, e di fare in modo che la strada lunga del dialogo vinca sulla scorciatoia degli arroccamenti. Per ora, le posizioni sono le seguenti. Pdl: non è un’urgenza, meglio rimandare, aspettiamo che la Commissione decida un testo comune, nel frattempo riuniamo il nostro comitato direttivo ma prima ancora facciamo esaminare i vari testi in esame dalla nostra Consulta interna per le riforme ed i problemi dello Stato. Lega: noi questa roba qui non la vogliamo, ma se il Pdl la fa passare prima delle Regionali siamo contenti lo stesso perché così ci ritroviamo un milione di voti in più (capite allora perché il Pdl temporeggia? spaccature interne e paura della Lega). Udc, Idv, Pd: pronti a votarla subito, con una serie di sfumature che vanno dalla richiesta dello ius soli secco fino all’apertura dell’Udc alla proposta del ministro Sacconi (per ora solo uno slogan, visto che non c’è niente di scritto) di introdurre la cittadinanza a punti. In tutto questo – e non lo dico perché l’ho proposta io – la Sarubbi-Granata, secondo me, resta un punto di mediazione piuttosto credibile: non so come andrà a finire con gli adulti, ma sono certo che la soluzione per i ragazzi delle seconde generazioni non potrà discostarsi troppo dalla nostra linea di ius soli temperato. Anche chi fa la faccia feroce, infatti, viene disarmato dall’innocenza dei bambini nati e cresciuti qui: tanto più che, dopo le parole di ieri del Papa sulle seconde generazioni, il Centrodestra non avrà più scuse da accampare, se non vuole perdere punti con la Chiesa. Per chi non lo avesse sentito, Benedetto XVI ha detto che “ai figli degli immigrati deve essere data la possibilità di frequentare la scuola e inserirsi nel mondo del lavoro”, ricordando la necessità di “un ambiente sociale che consenta e favorisca il loro sviluppo fisico, culturale, spirituale e morale”. Il suo ministro per i Migranti, mons. Vegliò, si è spinto ancora più in là: “Quando un migrante è in Italia già da un po’ di tempo, ha un lavoro regolare, paga le tasse, ha figli che parlano italiano e vanno alla scuola italiana, qual è la difficoltà a dargli la cittadinanza?”. Già, qual è la difficoltà? Se lo faccia spiegare, se ci riesce, dai novelli baluardi dell’identità cristiana: quelli che a Brescia, domenica scorsa, distribuivano per strada il crocifisso.

P.S. Proprio sull’appello del Papa mi ha intervistato La discussione. Se vi interessa, ecco qui.

La disfida dei minareti

Su Avvenire di oggi c’è un reportage dalla Svizzera, dove domenica prossima si vota un referendum per vietare la costruzione di minareti. Da noi, lo ricordo, la Lega ha preparato una mozione per vietare la costruzione di nuove moschee: era stata calendarizzata a maggio, sotto le Europee, poi è slittata, e temo che si riaffaccerà sotto le Regionali, perché – come potete capire – l’impeto ideale che la muove è davvero altissimo. Ma torniamo alla Svizzera, dove le polemiche non sono molto diverse da quelle nostrane: “Da una parte – spiega la giornalista di Avvenire, Anna Fazioli – chi paventa il rischio di una società parallela dove regna la legge islamica, dall’altra i fautori della ricchezza e dei beneficî dell’integrazione. (…) Il tutto mentre numerosi giuristi hanno fatto presente che, se anche al referendum vincesse il , la norma vieta-minareti quasi certamente non potrebbe entrare in vigore, poiché in conflitto con la Convenzione dei diritti umani del Consiglio d’Europa”. Giuristi contrari, dunque, e con loro anche il governo. Non nel nome del buonismo, ma del realismo: innanzitutto, perché una vittoria del potrebbe fomentare gli estremismi; inoltre, perché – come ha dichiarato il ministro per la Giustizia e la Polizia – non serve a niente prendersela con tutti, ma basta espellere gli imam potenzialmente pericolosi per l’ordine pubblico; infine, perché il Paese neutrale per definizione ha paura di compromettere i buoni rapporti, anche commerciali, con varie Nazioni a maggioranza musulmana. E le altre religioni? Contrarie pure loro: il Consiglio svizzero delle religioni ha detto all’unanimità che bisogna votare no perché “la pluralità culturale è una caratteristica dell’identità elvetica, che rende forte il Paese”. Quello che mi pare ancora più interessante, pensando anche alla situazione di casa nostra, è il giudizio espresso dal vescovo di Lugano, il varesotto Pier Giacomo Grampa, che è pure responsabile della Conferenza episcopale svizzera per i rapporti con l’islam e che – pur non essendo certamente un falco – non è noto negli ambienti ecclesiali come un’alabarda del progressismo. Vi riporto qui sotto buona parte dell’intervista: a voi, come al solito, l’onere dei commenti.

«I vescovi ritengono che quella del divieto sia una strada sbagliata innanzitutto perché non affronta i veri problemi posti dall’integrazione degli islamici nel nostro contesto sociale e culturale. Non mi risulta infatti che nel nostro Paese vi sia la corsa a costruire minareti. C’è poi un problema di discriminazione: qui si vuole ritoccare la Costituzione svizzera, ma essa deve contenere diritti e doveri fondamentali validi per tutti i cittadini e non proibizioni discriminanti per qualcuno».
Dunque per lei non occorre nessun tipo di regolamento per i minareti?
«Per disciplinare la costruzione di luoghi di culto è sufficiente la legislazione ordinaria, che regola un’urbanizzazione intelligente, di coerenza col paesaggio, di rispetto dell’ordine pubblico, di proporzionalità verso le nuove presenze e di armonia sociale».
Se non sono i minareti, quali sono i veri problemi d’integrazione dell’islam?
«Ai minareti si vuole attribuire una valenza di occupazione del territorio che non hanno. La questione centrale, invece, è ciò che si predica nelle moschee e che si insegna nelle scuole coraniche. Occorre capire se in quei discorsi si propone o meno l’accettazione dei nostri principi democratici di libertà, uguaglianza e distinzione tra leggi religiose e civili. Non è con la paura, né sventolando il panorama di una Svizzera riempita di minareti, che è un falso evidente, che si risolvono i problemi, ma con il dialogo, la difesa convinta della nostra civiltà e il rispetto dei nostri ordinamenti. Ordinamenti, tra l’altro, che in passato discriminavano ingiustamente gli stessi cattolici, in particolare quelli del Canton Ticino…».
A cosa si riferisce?
«I cristiani non dovrebbero mai dimenticare uno dei principi fondamentali del Vangelo: ‘Non fate agli altri quello che non volete che gli altri facciano a voi’. I cattolici ticinesi forse si sono dimenticati di quei tre articoli che una volta erano inseriti nella Costituzione svizzera e che li riguardavano direttamente. Ai ticinesi si proibiva di istituire nuove diocesi, di costruire nuovi conventi, di accogliere i gesuiti. Oggi quei tre articoli non ci sono più: perché percorrere una strada che la storia ha già giudicato inopportuna e superata?»

Povero Cristo

Parto da White Christmas per allargare il discorso. White Christmas, lo sapete, è il nome che il sindaco leghista di Coccaglio, in provincia di Brescia, ha dato alla sua campagna contro gli immigrati irregolari: entro Natale, ha detto, non ci sarà più un clandestino in tutto il Comune. Perché Natale, ha spiegato, è la festa dell’identità cristiana. La strumentalità con cui la Lega maneggia l’identità cristiana è così palese da sfiorare il ridicolo: ho avuto gioco facile, in questi giorni, a ricordare che a Coccaglio rischiano pure i re magi, visto che uno dei tre (Baldassarre, l’indiano) ha la pelle più scura del dovuto, ed avrebbe vita dura la stessa Sacra famiglia, che dopo la nascita di Gesù scappò 6 mesi in Egitto, senza regolare permesso di soggiorno. Ma comincio a credere che ormai siano così entrati nella parte da non rendersene più conto: basti aggiungere che , nel dibattito su Raitre, mi è toccata pure una lezione di cristianesimo dal cattolicissimo Matteo Salvini, scandalizzato dalla sentenza europea sui crocifissi. Più che la Lega, però, mi preoccupa l’atteggiamento morbido di una parte della Chiesa, che su molte altre questioni è meno disposta a transigere. Sul Venerdì di Repubblica, un lettore cattolico riflette su questa logica di due pesi e due misure, ipotizzando che non piaccia neppure ai fedeli di parte destrorsa. Gli risponde Michele Serra:

Vorrei che Lei avesse ragione quando sostiene che i cattolici destrorsi pretenderebbero dalle autorità ecclesiastiche almeno la stessa severità riservata un tempo al governo Prodi. Temo che non sia così. Penso che la differenza politica, in Italia, sia più rivelante della differenza religiosa. Tra un cattolico che vota Berlusconi e un cattolico che vota  sinistra, ci sono meno affinità di opinione che tra credenti e atei di sinistra, e tra credenti e atei di destra. Il giudizio sull’etica pubblica, e perfino quello sull’etica privata, è più influenzato dalle idee politiche che dalle convinzioni religiose. Per fare solo un esempio: conosco credenti che hanno solidarizzato con Beppino Englaro, e atei che lo hanno disapprovato fino all’insulto.

Credo che Serra abbia ragione, e non si tratta qui di giudicare se facciano meglio gli uni a difendere il crocifisso o gli altri a difendere Beppino Englaro. Penso solo che se Cristo è tutto qui, racchiuso nei confini stretti di un’appartenenza, allora è proprio un povero Cristo.

La romanella

Dalla comunità di Sant’Egidio ho sentito ripetere più volte che dietro il degrado si nasconde un disagio: non ha senso combattere il primo senza affrontare l’altro. Il degrado, a differenza del disagio, è visibile ad occhio nudo, come una macchia di umidità sulla parete; ma se mi limito ad una mano di bianco – dico una ma possono essere anche due o tre ed il risultato non cambia – prima o poi la chiazza rispunta fuori. Se invece scavo, faccio intercapedini e metto la carta catramata – se vado, cioè, alle radici di quel degrado – ho serie possibilità che la parete finalmente si asciughi: a quel punto sì che do una bella mano di bianco (o due, o tre…) e sistemo il tutto. Già nel ddl Carfagna sulla prostituzione – quello, per intenderci, che è finito in un cassetto e che a naso ci resterà, chissà perché – si capiva quale fosse, in materia, l’approccio del governo: una bella romanella e via. La romanella è quell’aggiustatina che il carrozziere ti dà alla macchina quando vuoi spendere poco: appena la ritiri ti sembra nuova, ma dopo un mesetto rispuntano fuori i vecchi difetti. D’altra parte, il tuo uomo era stato onesto: “Dotto’, famo ‘na cosa seria o ‘na romanella?”, ti aveva chiesto, e tu – guardandoti nel portafoglio – avevi optato per la seconda scelta. Come il ddl Carfagna, dicevo, che per combattere la prostituzione aveva lanciato una grande operazione di decoro urbano: l’importante non è che si prostituiscano (o meglio: che siano, nella maggior parte dei casi, costrette a farlo), ma che almeno non si veda. Sulla stessa linea si muove l’ordinanza del sindaco Alemanno, stabilendo una multa di 100 euro per i lavavetri ai semafori e per i giocolieri, che ne sono un po’ l’evoluzione artistica. “I vigili urbani – scriveva l’Ansa di lunedì scorso – hanno fatto sette multe e dieci sequestri di attrezzature. Tre lavavetri sono riusciti a sfuggire ai vigili abbandonando i secchi e le spazzole”. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere: come ha giustamente sottolineato Angelo Bonelli, dei Verdi, questa non è lotta alla povertà, ma lotta ai poveri. È un’altra operazione di decoro urbano, insomma: un’altra romanella, che per qualche settimana farà sparire i poveri dai semafori e li manderà a suonare nei vagoni della metropolitana o a spostare carrelli negli spiazzi dei supermercati oppure a distribuire santini all’uscita delle chiese. A proposito di Chiesa: l’ordinanza di Alemanno ha provocato pure la reazione del cardinale vicario di Roma, Agostino Vallini, che non è certamente un barricadero ma che non ha potuto (né voluto) tacere al sindaco il malessere del mondo cattolico. Cito testualmente dal comunicato ufficiale del vicariato: “La domanda di legittima sicurezza dei cittadini che la pubblica amministrazione ha il dovere di tutelare non può  non essere coniugata con il diritto naturale di ogni uomo alla sopravvivenza e alla ricerca di condizioni per una vita dignitosa”. E ancora: “Il cardinale Vallini, pur consapevole della complessita’ del problema, ha invitato il sindaco ad individuare iniziative e strumenti alternativi e integrativi che mostrino il volto umano della città e siano di sprone ai cittadini a non guardare soltanto ai propri interessi ma al bene di tutti”. Se no, a che cosa serve la politica?