
Ogni tanto, alla Camera capita pure di divertirsi: come quando ti chiedono, per esempio, di intervenire in Aula su una questione che ti appassiona a priori, da quando sei bambino. Tipo lo sport in generale, ed in particolare il calcio. Ieri si è discusso, infatti, di una mozione proposta dall’Udc per agevolare la cura dei vivai da parte delle società sportive, in un momento in cui i talenti non vengono più coltivati ma direttamente importati dall’estero: un tema che giuridicamente è più complesso di quanto non sembri, perché va a cozzare contro il principio della libera circolazione dei lavoratori. Ho studiato un po’ i numeri, prima di parlare, e poi ho detto la mia. Cercando di non sembrare troppo juventino.
ANDREA SARUBBI. Signor Presidente, sul sito de La Gazzetta dello sport c’è la formazione dell’Inter per la partita della prossima giornata di campionato contro il Bologna. Non è quella ufficiale di Mourinho, ma tanto non è l’aspetto tecnico che ci interessa qui in Aula. La vado a leggere: in porta Julio Cesar; in difesa Maicon, Samuel, Lucio e Chivu; a centrocampo Javier Zanetti, Cambiasso e Stankovic; trequartista Snejder; in attacco Eto’o e Milito. La squadra campione d’Italia in carica manda in campo, sabato prossimo, tre brasiliani, quattro argentini, un rumeno, un olandese, un serbo ed un camerunense. Neppure un italiano (lo diceva anche l’onorevole Ciocchetti poco fa)! Uno si potrebbe chiedere: avranno mesi tutti in panchina gli italiani? Macché: in panchina ci sono solo due italiani su sette (Toldo e Balotelli); gli altri (Cordoba, Thiago Motta, Muntari, Mancini, Vieira) sono un colombiano, due brasiliani, un ghanese ed un francese. E stiamo parlando di una squadra che, in Europa, difende i colori dell’Italia. Ma non si può dire certo che difenda il made in Italy, visto che pure il tecnico è di importazione: l’allenatore campione d’Italia, Josè Mourinho, è infatti portoghese. La situazione migliora un po’ – non di molto, per la verità – se si passa dalla capolista nel calcio alla capolista nella pallavolo: in cima alla classifica della serie A di volley c’è attualmente l’Itas Diatec Trentino, che nella rosa dei titolari ha cinque giocatori italiani. Ma, anche qui, la maggioranza (sette su dodici) è costituita da stranieri: due brasiliani, due bulgari, un francese, un cubano, un polacco. Se poi andiamo nel basket, basta dare un’occhiata alla squadra più forte del campionato – la Montepaschi Siena – per vedere che pure in questo caso, fra i titolari, sono gli stranieri a farla da padroni: ben 9 giocatori su 13 sono nati e sportivamente cresciuti all’estero, anche se poi, grazie al sistema delle naturalizzazioni, tre di loro (un georgiano, uno statunitense ed un nigeriano) figurano italiani. Sulle naturalizzazioni ho un punto di vista un po’ diverso, meno benevolo di quello dell’onorevole Ciocchetti, perché, secondo me, le naturalizzazioni – che alterano le statistiche, ma non la natura del problema – rappresentano una scorciatoia ormai comune a parecchi sport: potrei citare il caso del brasiliano Amauri nella nazionale italiana di calcio, dove, tra l’altro, gioca già l’argentino Camoranesi. Che entrambi possano fare comodo a Marcello Lippi è indubbio, ma qui il discorso è un altro: stiamo parlando di talenti nati e sportivamente cresciuti altrove, arrivati in Italia quando ormai erano già campioni. E i nostri giovani? Che fine hanno fatto? Possibile che non siano all’altezza? Possibile che, per fare bella figura in campo internazionale, dobbiamo ricorrere ai naturalizzati? L’esempio della nazionale italiana di calcio a 5, da questo punto di vista, è un caso di scuola: i 14 calciatori portati agli ultimi mondiali nella spedizione azzurra erano tutti brasiliani! Possibile che fra i giovani italiani – fra i giovani, cioè, di un Paese di 60 milioni di abitanti – non ce ne sia uno che meriti di vestire la maglia della propria nazionale? E se così fosse, vale ancora la pena chiamare italiana una squadra i cui giocatori si chiedono la palla in portoghese? Una squadra, soprattutto, in cui non ci sia neppure un giocatore che ha fatto la gavetta dal basso, cominciando magari da piccolo su un campo di periferia romana o milanese, per poi finire in nazionale?
Tra un paradosso e l’altro, signor Presidente, siamo arrivati al contenuto della mozione di oggi, che ha il merito di porre all’attenzione del Parlamento il problema dei nostri vivai. Il problema, cioè, della crescita sportiva dei nostri giovani, che spesso arrivano alle porte della prima squadra ma poi rimangono sulla soglia, perché nella maggior parte dei casi i club preferiscono puntare su atleti stranieri già affermati. Anche le società che storicamente producevano talenti – penso all’Atalanta di Scirea, Donadoni e Vieri, ma anche al Milan di Baresi, Tassotti, Albertini e Maldini – oggi sembrano aver abbandonato quella pista: l’unica eccezione fra le grandi società è forse la Juve, che ha cominciato a puntare sul proprio vivaio per necessità, con un bilancio da salvare dopo la retrocessione in serie B, e si è ritrovata in casa dei giovani campioni (su tutti Marchisio, Giovinco e De Ceglie) che magari, in condizioni normali, non sarebbero mai esplosi. Il giovane di talento, in Italia, fatica ad emergere: non è raro, infatti, assistere ad una fuga all’estero, dove ci sono contratti milionari e possibilità di un posto in prima squadra. In alcuni casi, poi, c’è anche una legislazione sportiva differente, che meriterebbe a mio parere di essere armonizzata, almeno a livello europeo: penso all’ultima promessa italiana, un ragazzo romano, Federico Macheda, che il Manchester United strappò alle giovanili della Lazio perché nel Regno Unito si possono fare contratti di lavoro professionistico anche ai minori di 16 anni; un ragazzo che, cresciuto calcisticamente in Italia, nelle giovanili della Lazio (la Lazio ha quindi puntato su di lui fin da quand’era piccolo), è poi arrivato a 16 anni e adesso è titolare col Manchester United, e chissà quando rivedrà il campionato italiano. Ma questo è un altro discorso, che ci porterebbe lontano. Un problema di legislazione, comunque, sussiste. Come argutamente nota il testo di questa mozione, «i Trattati dell’Unione europea sono stati fatti per l’economia e non per lo sport». Ciò significa che una norma sacrosanta in altri settori, come quella della libera circolazione dei lavoratori in Europa, si traduce in uno stop a tutti i tentativi di proteggere i propri settori giovanili: la FIFA ci provò, chiedendo l’introduzione di un numero minimo di giocatori autoctoni nelle rose, ma l’Unione europea disse di no per il motivo di cui sopra. Parallelamente, saltarono tutti i tetti al numero di calciatori stranieri, posti da molte leghe: era il 1995, l’anno della sentenza Bosman. E forse non è un caso che, proprio da allora, l’Italia abbia smesso di produrre giovani talenti ed abbia cominciato ad importarli: citavo prima il Milan dei Baresi, Tassotti, Albertini e Maldini, se andiamo a guardare è tutta gente di prima del 1995, non dopo. La mozione in esame afferma, in sostanza, che è finito il tempo di stare a guardare, e che il Governo può porre un freno a questo fenomeno attraverso un paio di provvedimenti: uno sul fronte interno, uno su quello esterno. Il primo intervento potrebbe essere un incentivo, anche di tipo fiscale, ad investire sui giovani: abbiamo qualche dubbio che il Ministero dell’economia e delle finanze lo vari da solo, e per questo crediamo che la mozione possa essere uno strumento utile. Il secondo intervento sarebbe invece una pressione sui partner europei affinché venga varato presto un protocollo che riconosca la specificità dello sport, rispetto agli altri settori lavorativi. Due misure di buonsenso, che ci auguriamo il Governo faccia proprie; prima ancora, però, c’è bisogno che la maggioranza voti la mozione, insieme a noi ed insieme all’UdC che ha avuto il merito di proporla (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Unione di Centro).